di Franco Belci
Nel sentire comune, agosto è per definizione il mese delle ferie. Non si può e non si deve scordare però che è anche un mese tragico per la memoria del Paese: il 2 agosto 1980 scoppiò la bomba alla stazione di Bologna e il 4 agosto 1974 avvenne la strage al treno Roma-Monaco (“Italicus”). Le date per gli attentati non furono scelte a caso: si trattava del periodo di massima concentrazione, nelle stazioni e sui treni, di persone che partivano per le vacanze o che vi rientravano. E l’obiettivo era seminare il terrore tra i cittadini inermi, togliere loro ogni senso di sicurezza. Il testo della rivendicazione dell’attentato all’Italicus da parte di “Ordine nero”, rinvenuto il giorno successivo e comunicato anche alla stampa, è illuminante, e agghiacciante anche se letto dopo cinquant’anni: “abbiamo voluto dimostrare alla Nazione che siamo in grado di mettere le bombe dove vogliamo […] Diamo appuntamento per l’autunno: seppelliremo la democrazia sotto una valanga di morti”. Commemorando le vittime dell’ “Italicus” il presidente della Repubblica ha ricordato come «nella catena sanguinosa della stagione stragista dell’estrema destra italiana, di cui la strage dell’Italicus è parte significativa, emerge la matrice neofascista, come sottolineato dalla Cassazione e dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2, pur se i procedimenti giudiziari non hanno portato all’espressa condanna di responsabili». Parole altrettanto chiare aveva pronunciato due giorni prima in occasione della commemorazione della strage di Bologna. Dal governo e dalla maggioranza è arrivato il cordoglio istituzionale per le vittime: nulla di più. Anzi, qualcosa in meno. La premier è intervenuta soltanto per polemizzare con il presidente dell’Associazione familiari delle vittime della strage di Bologna. Bolognesi aveva sostenuto che si trovano al governo gli eredi dei movimenti che avevano ideato e commesso la strage. Parole forti, ma verificabili: il presidente aveva fatto nomi e cognomi. La premier, invece di rispondere nel merito (per esempio dimostrando che quei legami non esistono) ha preferito affidarsi, come ha fatto in altre occasioni, al vittimismo: quelle parole potrebbero mettere a rischio la sua incolumità. Sull’ “Italicus” il presidente del Senato ha fatto riferimento alle verità “stabilite dalle sentenze”, quasi ne esistessero della altre. A dare un’ interpretazione autentica (consapevole o meno) delle sue parole è stato il presidente della commissione Cultura della Camera: dunque non proprio l’ultimo arrivato. Gli atti giudiziari che attribuiscono ai neofascisti la bomba alla stazione di Bologna costituirebbero secondo il parlamentare di FdI un «chiaro teorema politico contro la destra» che dovrebbe essere smontato da un’inchiesta promossa dal ministro della Giustizia. Dal governo, ancora silenzio. Eppure si tratta di un giudizio che mette in discussione la storia e la memoria civile del Paese, oltre che i rapporti tra i poteri dello Stato: la dialettica giudiziaria si svolge infatti nei tribunali attraverso il dibattito processuale tra accusa e difesa e garantisce tre gradi di giudizio. Dunque, la sentenza definitiva costituisce la rappresentazione più logica e coerente dei fatti basata su prove e testimonianze alla fine di un percorso che spesso dura anni. Certo, esistono gli errori giudiziari, che riguardano tutti i sistemi e costituiscono un rischio implicito in ogni ordinamento giuridico: ma dopo 44 anni tutti i fili della vicenda portano allo stesso burattino. Oltretutto, la richiesta del parlamentare appare oggettivamente eversiva, visto che affida all’Esecutivo il potere di intervenire sulle sentenze con percorsi di natura extragiudiziale. Ma la questione è più generale. Posto che le verità assolute sono proprie solo delle fedi, occorre riconoscere che per le questioni terrene si deve ricorrere a ricostruzioni il più attendibili possibile, affidate a una ricerca storica libera da condizionamenti e a una magistratura indipendente e sottratta al potere politico: entrambe si basano sull’analisi dei fatti, sull’attendibilità delle fonti, sulla fondatezza dei ragionamenti, sul confronto tra le posizioni, pur nella differenza degli strumenti e degli obiettivi. Solo in questo modo si formano la Storia e la memoria della Repubblica e si costruisce il calendario civile di una comunità democratica. L’alternativa è affidare al potere, e alla maggioranza di turno, la definizione di una verità di Stato. Ma allora non si tratta più di democrazia.