di Franco Belci
L’incognita sulla partecipazione alle elezioni europee era già presente nel dibattito politico prima della consultazione dell’ 8-9 giugno. Una ricerca commissionata dal gruppo NEM alla SWG sulle intenzioni di voto nel Nord Est forniva, poco prima delle elezioni, una traccia precisa: la fiducia nella UE del campione indagato si aggirava sul 50%. Del resto, la tendenza al crollo dell’affluenza ha caratterizzato tutti i più recenti appuntamenti, comprese le elezioni politiche del 2022, quando ci si fermò al 63,4%. La serie storica relativa alle politiche mostra che fino al 1983 l’affluenza è sempre stata altissima: fu solo in quell’anno che si scese sotto la soglia del 90%; la tendenza al decremento si rafforzò progressivamente fino al 2001, quando venne recuperato qualche punto. Ma nel 2013 si registrò un calo secco di 5 punti percentuali rispetto all’appuntamento precedente, nel 2018 di altri due fino, appunto, alle politiche del 2022. Alle europee la partecipazione è sempre stata più bassa, anche se fino al 1999 è oscillata tra l’80 e il 70%, per poi scendere al 66,7% nel 2009 fino al 54,5% dieci anni dopo e al 49% nell’ultima tornata. Un dato storico: non era mai accaduto infatti che, in occasione di consultazioni generali (referendum esclusi), l’affluenza scendesse sotto la soglia del 50% degli aventi diritto. Si potrebbe affermare che quello dell’astensione costituisce il “primo partito” se ci si potesse affidare solo alla matematica e se si trattasse un blocco omogeneo. In realtà, come è facile presumere, le motivazioni sono diverse, anche se il comune denominatore è costituito da un lato dalla disaffezione verso la UE e dall’altro verso le espressioni della politica italiana. Chi ha osservato che non si possono confrontare i risultati delle europee con quelli delle politiche, dal punto di vista tecnico potrebbe aver ragione. Ma molti commentatori hanno operato questa scelta perché, dalle precedenti europee (2019) la situazione politica italiana è totalmente cambiata: allora la Lega era al 34,3%, FdI al 6,4%, il M5S al 17,1%. A meno di non voler sostenere che per il centro destra si sia trattato di un semplice travaso di voti: ma mi sembra una trasposizione troppo meccanica. Dunque, i risultati di giugno sono significativi dal punto di vista interno, anche se si votava col proporzionale e se essi andrebbero ritarati sulla partecipazione. In apparenza vi sono tre vincitori: FdI, PD e AVS. Ma se si guarda ai numeri assoluti, si scopre che in percentuale FdI cresce, ma perde circa 600mila voti rispetto al 2022, mentre il PD ne guadagna circa 250mila e AVS addirittura 500mila. Escono sconfitti i due (sovrapponibili) partitini personali di centro, che non eleggeranno parlamentari, la Lega, superata da FI in versione moderata, e soprattutto il M5S, chiamato a una profonda riflessione sul proprio futuro, finora lasciato, come una cambiale in bianco, in mano a Conte e alla sua visione tattica. Qualcuno ha osservato che l’affluenza alle europee si colloca solo poco sotto la media (51%) per cercare di ridimensionare il problema, inquadrandolo all’interno di una tendenza generale. Non si tratta di una spiegazione sufficiente. In Europa, la somma dell’astensione e del voto di protesta attribuito all’estrema destra segnala una crescente sfiducia che ha catalizzato il radicalismo nazionalistico. In particolare, a Parigi e Berlino ha prodotto effetti devastanti: mettendo in discussione, in Francia, quel confine tra destra e “forze repubblicane” tracciato da De Gaulle; e in Germania, la memoria civile basata sulla condanna del nazismo che è stata finora patrimonio condiviso. Le ragioni del risultato sono molte. C’è tuttavia un comune denominatore: una parte sempre più grande dei cittadini vede l’Unione come un’entità senz’anima, prigioniera di una tecnocrazia oppressiva, portatrice non di idee e progetti, ma di vincoli invasivi. Il rischio è che la maggioranza che si creerà tra Bruxelles e Strasburgo ritenga di non doversene curare, in attesa di tempi migliori. C’è seriamente da temere, in questo caso, che il processo di unificazione possa incepparsi. Tutto ciò rende problematico il quadro politico anche in Italia. Sarebbero perciò richieste consapevolezza, senso di responsabilità e prudenza. La maggioranza ha invece tirato dritto, accelerando su provvedimenti profondamente divisivi (premierato e autonomia differenziata) senza curarsi della misura effettiva della propria rappresentatività. Se l’operazione si completasse in Parlamento, si arriverebbe al referendum confermativo sul premierato e, probabilmente, a un secondo sull’autonomia: in questo caso sarebbero chiamati ad assumersi una precisa responsabilità anche coloro che finora hanno disertato le urne. Non si tratterebbe infatti più di votare per un partito, ma per un modello istituzionale. Quello della Costituzione, fondato su una sovranità popolare limitata dai contrappesi istituzionali, dalla separazione dei poteri, con un ruolo regolatore del Capo dello Stato; o quello del premierato che svuota le prerogative presidenziali, affidandole di fatto al premier, e si limita alla fotografia, ogni cinque anni, dei rapporti di forza facendone l’unico elemento di una dialettica politica e sociale che ne risulterebbe irrimediabilmente impoverita. E quello di un’autonomia pasticciata e anarchica che, in assenza della determinazione dei Lep, ci consegnerebbe un Paese caratterizzato da insanabili diseguaglianze. Molto dipenderà da noi.