di Redazione
Il 23 settembre del 1973 moriva il poeta cileno, premio Nobel per la letteratura, Pablo Neruda, pseudonimo di Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto, a pochi giorni dal cruento colpo di stato in Cile da parte delle forze armate del generale Augusto Pinochet.
Stava pianificando la sua fuga in Messico, lontano dal paese di cui era stato ambasciatore nel mondo, più volte senatore, attivista politico comunista, amico fraterno del Presidente Salvador Allende, morto il giorno del colpo di stato, l’11 settembre, durante l’attacco dei golpisti al palazzo presidenziale, la Moneda.
Al suo funerale, mentre le carceri e gli stadi traboccavano di detenuti, sfilarono tremila coraggiosi “ la ragazza, il minatore, l’avvocato, il marinaio, il fabbricante di bambole “.
La sua morte fu sospetta fin dall’inizio, pur se ammalato di un cancro alla prostata: già allora i familiari parlarono di assassinio con una iniezione letale nella clinica di Santa Maria a Santiago.
Le successive riesumazioni e le analisi fatte sui resti fatte da esperti internazionali non hanno fatto altro che confermare le ipotesi e i sospetti iniziali.
Ai militari che immediatamente dopo l’11 settembre, iniziarono a vessarlo, con continue perquisizioni nella sua abitazione, Neruda sbottò: «Guardatevi in giro, c’è una sola forma di pericolo per voi qui: la poesia».
Pablo Neruda, popolarissimo nel suo paese e in tutto il mondo, il Premio Nobel era del 1971, libero in Messico sarebbe stato per il golpista Pinochet e per gli Stati Uniti, registi del golpe, una figura attorno alla quale sarebbe stato possibile coalizzare le forze democratiche cilene e internazionali, un pericolo quindi credibile e costante per la dittatura cilena e per i suoi sostenitori.
Ora Pablo Neruda riposa a Isla Negra, nella sua villa e suo ultimo luogo di residenza, a fianco della tomba della moglie Matilde Urrutia.
Redazione
Ode alla pace
di Pablo Neruda
Sia pace per le aurore che verranno,
pace per il ponte, pace per il vino,
pace per le parole che mi frugano
più dentro e che dal mio sangue risalgono
legando terra e amori con l’antico
canto;
e sia pace per le città all’alba
quando si sveglia il pane,
pace al libro come sigillo d’aria,
e pace per le ceneri di questi
morti e di questi altri ancora;
e sia pace sopra l’oscuro ferro di Brooklin, al portalettere
che entra di casa in casa come il giorno,
pace per il regista che grida al megafono rivolto ai convolvoli,
pace per la mia mano destra che brama soltanto scrivere il nome
Rosario, pace per il boliviano segreto come pietra
nel fondo di uno stagno, pace perché tu possa sposarti;
e sia pace per tutte le segherie del Bio-Bio,
per il cuore lacerato della Spagna,
sia pace per il piccolo Museo
di Wyoming, dove la più dolce cosa
è un cuscino con un cuore ricamato,
pace per il fornaio ed i suoi amori,
pace per la farina, pace per tutto il grano
che deve nascere, pace per ogni
amore che cerca schermi di foglie,
pace per tutti i vivi,
per tutte le terre e le acque.
Ed ora qui vi saluto,
torno alla mia casa, ai miei sogni,
ritorno alla Patagonia, dove
il vento fa vibrare le stalle
e spruzza ghiaccio
l’oceano. Non sono che un poeta
e vi amo tutti, e vago per il mondo
che amo: nella mia patria i minatori
conoscono le carceri e i soldati
danno ordini ai giudici.
Ma io amo anche le radici
del mio piccolo gelido paese.
Se dovessi morire mille volte,
io là vorrei morire:
se dovessi mille volte nascere,
là vorrei nascere,
vicino all’araucaria selvaggia,
al forte vento che soffia dal Sud.
Nessuno pensi a me.
Pensiamo a tutta la terra, battendo
dolcemente le nocche sulla tavola.
Io non voglio che il sangue
torni ad inzuppare il pane, i legumi, la musica:
ed io voglio che vengano con me
la ragazza, il minatore, l’avvocato, il marinaio, il fabbricante di bambole
e che escano a bere con me il vino più rosso.
Io qui non vengo a risolvere nulla.
Sono venuto solo per cantare
e per farti cantare con me.