di Andrea Zannini del 15/9/2023
Se c’è un autore che mi ricorda la Mestre degli anni sessanta e settanta dove sono cresciuto, questo è Italo Calvino (1923-1985), di cui ricorre quest’anno il centesimo della nascita ; se c’è un personaggio, questo è Marcovaldo. É difficile trovare dal secondo dopoguerra uno scrittore che abbia saputo raccontare con altrettanta sensibilità e profondità il mondo che aveva sotto gli occhi e in cui era immerso, intuendone risvolti che all’epoca erano visibili solo a sguardi straordinariamente sensibili, e sfuggivano ai più.
Della vita di Italo Calvino si ricorda soprattutto una dichiarazione dello stesso autore: che uno scrittore, un artista va conosciuto esclusivamente per le sue opere. Per questo motivo i dati biografici che egli comunicava erano scarsi, se non volutamente falsi. Già questa era un’eresia per come si studiava letteratura nella scuola italiana, secondo lo schema ingessa- to dello storicismo letterario e della costruzione di grandi schemi-scatoloni che, secondo la didattica corrente, avrebbero dovuto servire a “inquadrare” gli autori nella propria epoca: Manzoni e il romanticismo, D’Annunzio e il decadentismo, ecc. Insomma, come ridurre la letteratura a slogan.
Calvino, per sua fortuna, scappava a questa regola, era indefinibile e dunque indefinito. Se ne presentavano unicamente i testi essendo la sua vita, l’esistenza di un banale redattore e poi dirigente editoriale, povera di quegli eventi eclatanti che rendevano i Grandi della letteratura, anche novecentesca, immediatamente commestibili. Di Calvino, poi, si somministravano soprattutto i racconti, anzi quel genere che viene detto “racconto breve”, che non richiedeva grandi riflessioni di contesto, ma immergeva immediatamente in una storia, a contatto con i suoi personaggi. La sua letteratura sfuggiva alla retorica in cui stava cadendo il tardo neorealismo i cui personaggi, immersi in necessità economiche, rischiavano ormai di rappresentare dei luoghi comuni.
Anche per questo Marcovaldo ovvero Le stagioni in città (1963), costruito con episodi scritti tra anni ’50 e anni ’60, fu uno dei libri più venduti e letti nei due decenni a seguire. Un “libro per ragazzi”, secondo una formula solo apparentemente riduttiva, alla quale Calvino accondiscese ben volentieri e che si rivelò perfetta non solo editorialmente: Marcovaldo è stato venduto per anni come nessun altro libro del catalogo Einaudi. Il primo elemento di novità della ventina di favole del Marcovaldo sta proprio nel suo personaggio eponimo: un uomo qualsiasi di una città industriale, che lavora come manovale in un magazzino, al quale accadono cose variamente fantastiche e contemporaneamente normali, all’interno di una quotidiana lotta per la vita sua e della sua famiglia. Il campo di battaglia, forse per la prima volta nella storia letteraria italiana, e senza dubbio per la prima volta in un modo così immediato e diretto, è quello della grande trasformazione urbana del secondo dopoguerra: la città che produce e consuma ad una velocità ormai incontrollabile. Fino alle ore 18 nelle aziende anonime come quella in cui lavora Marcovaldo, e dopo quest’ora nei luoghi consacrati al consumo, tra i quali spiccava la cattedrale del benessere, il supermarket: «alle sei di sera la città cadeva in mano ai consumatori». Ma a differenza dei personaggi di altri testi più realisti della letteratura e del cinema, Marcovaldo non è dentro la trasformazione, è dopo di essa. La sua città, il suo ambiente urbano e tecnologico si è già mangiato il presente, una volta per tutte. La sua vita non conosce altro che <<tram, semafori, locali al seminterrato, fornelli a gas, roba stesa, magazzini e reparti d’imballaggio». L’ambiente è un labirinto di manufatti: lampioni, cinema, marciapiedi, strade e autostrade, cartelloni pubblicitari, fontanelle che sgocciolano, enormi scritte pubblicitarie sulle terrazze dei con- domini che oscurano la luna. Quando, a fatica, si insinua nel paesaggio trasformato, la natura, essa è irriconoscibile: la neve che cade in città è una patina grigia, la sabbia sulla riva di un fiume è una
palta fangosa. Ma alla popolazione la città piace così, <guai toccargliela: i grattacieli, i distributori di sigarette, i cinema a schermo panorami- co, tutti motivi indi- scutibili di continua attrattiva». Perché gli abitanti della città ne sono ormai i meccanismi costitutivi medesimi.
Solo a un abitante questo sentimento non è attribuibile con certezza, Marcovaldo. Lui ha l’occhio che riesce a cogliere le stagioni, l’ingiallire delle foglie, il cambio dell’aria e dei venti, solo lui intravvede nelle pieghe della modernità tracce di un passato ad altri ormai irriconoscibile: dei funghi che crescono in un’aiuola, uno stormo di beccacce nel cielo, una mandria che passa nottetempo diretta verso chissà quale alpeggio. Marcovaldo è – scriverà lo stesso Calvino in una introduzione al romanzo – un Uomo della Natura, un Buon Selvaggio esiliato in una dimensione che non riesce a riconosce- re come propria.
A differenza, invece, dei figli che di quella città sono ormai parte integrante. «Papà chiedono i figli a Marcovaldo le mucche sono come i tram? Fanno le fermate? Dov’è il capolinea delle mucche?». Tra la generazione di Marcovaldo, cresciuto prima e durante la guerra, e quella dei suoi figli c’è uno stacco ormai incolmabile, un cambiamento antropologico, avrebbe detto un coetaneo di Calvino, Pier Paolo Pasolini. La dimensione della generazione successiva a quella del padre Marcovaldo è ormai completamente urbana, separata irreparabilmente dall’Italia contadina dai cui angoli era arrivato in città, nella foga dell’urbanesimo del dopoguerra, l’immigrato protagonista.
Sul pessimismo di Marcovaldo sono stati scritti i tradizionali fiumi di inchiostro: le sue illusioni naturali, o “naturistiche”, vanno irrimediabilmente incontro ad una delusione, quasi a mettere sull’avviso che la complessità della città moderna non permette facili ottimismi. Ciò nonostante non c’è spazio nelle sofisticatissime storielle di Marcovaldo per la rassegnazione: egli ricomincia sempre, indefessamente, a ricercare nel suo universo stravolto lacerti di natura.
Non c’è poi spazio, nel mondo di Marcovaldo, soprattutto per la nostalgia. Quando poi questa si ammanta di autenticità la frode è dietro l’angolo, e lo scrittore irride all’ingenuo che voglia credere che esista – che sia mai esistita – una moralità originaria. I cibi più semplici, al supermercato, nascondono al loro in- terno le sostanze più terrificanti, le tinche del fiume sono avvelenate da gli scarichi di una fabbrica e, quando Michelino se ne parte dietro ad una mandria per lavorare con i malgari, torna dopo aver sgobbato come un mulo ed essere stato pagato una mi- seria. Quando in ospedale si scopre e si trafuga un bel coniglio bianco, simbolo della purezza della natura d’un tempo, si scopre che alla bestiola è stato inoculato sperimentalmen- te un virus velenosissimo. C’era un riscatto nel Marcovaldo di Calvino? Una “morale” nella sua favola indu- striale ed esistenziale come la stessa. formula della favola richiederebbe? A sessant’anni di distanza dalla prima pubblicazione di quello straordinario osservatorio sull’Italia del boom che è stato Marcovaldo, quella morale forse si vede più chiaramente di quanto non si vedesse allora.
In primo luogo, sembra ci voglia dire lo scrittore, lo stravolgimento della città contemporanea non ha altre soluzioni che dall’interno della città stessa. Non ci sono opzioni esterne, attori esogeni che ci possano salvare, fughe che possano concludersi positivamente: la città disumanizzante non può trovare soluzione a se stessa se non in se stessa. Se pensiamo a tante fughe immaginate o reali degli anni sessanta e settanta, quella di Calvino è una decisa opzione verso il confronto diretto con i propri problemi, senza scorciatoie o illusorie vie di scampo. Un vero e proprio incitamento all’impegno e al coinvolgimento che in fin dei conti, a pensarci bene, è anche un gesto di fiducia verso quegli abitanti che della città alienata costituiscono gli ingranaggi.
In secondo luogo, nel segreto della letteratura al tempo stesso così semplice e così sofisticata di Calvino, è nascosta la risorsa dell’immaginazione: così come lo stralunato Marcovaldo e i suoi personaggi si inventano ogni giorno qualcosa per sfuggire, stravolgere o far propria la società dei consumi, così l’unica possibili- tà per l’uomo moderno di resistervi sta nell’usare le armi dell’inventiva e della creatività.
Quanto la generazione urbana cresciuta nei banchi delle scuole medie negli anni in cui Marcovaldo spopolava sia riuscita a raccogliere la sfida del personaggio di Italo Calvino, quanto sia riuscita – e possa ancora riuscire! – a trasformarla in qualcosa di positivo, questo è un altro discorso..
Kaleidos