di Nordio Zorzenon Recensione di Davide Strukelj
Come aveva già fatto ne “La tuta gialla”, Zorzenon guarda ai fatti della storia con gli occhi dei protagonisti, quelli veri, cercati tra la gente comune. E così, dopo aver parlato del cantiere monfalconese del secondo dopoguerra, in “Milite ignoto” si occupa di uno scorcio del primo conflitto mondiale visto con gli occhi di un fante, uno dei tanti ragazzi mandati al fronte. Un io narrante che è anche un eroe a modo suo, ma forse non solo a “modo suo”.
Romanzo (di impianto) storico dunque, nel quale fanno capolino fatti, luoghi e personaggi reali.
Compare così il Re d’Italia, che sale sul campanile nelle retrovie del fronte, “tira fuori il binocolo e si mette a guardare la guerra” e “poi la fotografa”. Lo stesso Re che ricompare nelle ultime pagine, diventato ormai “vecchio, patito, come se avesse fatto la guerra per davvero”.
Compare il vate poeta, “seghetta striminzita”, che gira in macchina e inventa azioni spettacolari per una guerra autopromozionale, salvo poi fallire miseramente ma sempre al costo della vita altrui. Come gli era già accaduto in passato, anche in queste pagine il “mezzo rachitico” con “l’andatura da marionetta” prima elabora un piano e grida “all’assalto”, poi scrive “una poesia per quelli che erano morti per la patria”.
Insomma eroi di altra foggia. Eroi delle retrovie, appunto.
Compaiono anche i luoghi di quelle vicende, come il monte Ermada, il cui colore “era quello della cenere”, e “gli alberi erano carbone”, e “i fiori erano le croci disseminate lungo tutto il pendio”.
Un finto monte che secondo alcuni meritava sacrifici altissimi, tanto che per conquistarne la vetta si poteva anche “crepare per la patria”, come diceva il capitano; ma secondo gli altri, i militari della truppa, se la patria erano quegli odiati “grembani” dell’Ermada allora no: quella “patria” non era davvero un motivo sufficiente per morire.
Naturalmente compaiono anche loro: i militi della truppa, che disegnano la vicenda umana del romanzo. “Umana” si fa per dire, perché spesso vivono e sono trattati davvero come bestie. Zorzenon non manca di ricordarcelo.
E così i feriti urlano “come i maiali tra novembre e dicembre”.
E i morti vengono portati via e rimpiazzati dai vivi “uno dopo l’altro che era la sorte dei manzi quando li portavamo al macello”.
Tanto pesanti sono le condizioni di vita di quei poveretti che, trascorso qualche mese in trincea, ai militi va bene tutto: “il fango, la piova, la bora, i pidocchi e finanche il fetore dei vivi e quello dei morti”… alla fine va bene anche morire. Proprio come “le bestie del cortivo del fattore, che anche a loro va bene tutto”, “piova, fango, neve, piscio e merda”, “forse per questo si lasciavano ammazzare come niente”.
I militi nelle trincee del Carso proprio come le bestie nel “cortivo del fattore”. Anche morire può andare bene.
Per il giovane protagonista, voce narrante della vicenda anche al di là della sua stessa vita terrena, si avvicina l’epilogo. Il ragazzo lo accetta con franca consapevolezza e ironica rassegnazione, perché “all’ultimo assalto c’era voglia di morire”, “che poi sarei diventato un eroe e mi avrebbero dato una medaglia”.
Ma sappiamo che il destino sa essere cinico. Dopo dieci attacchi scalando il costone, stremati nel corpo dalle fatiche e dalle ferite e svuotati dai compagni visti morire, i superstiti vivono l’onta del disonore venendo definiti “vigliacchi sovversivi” da un colonnello che non aveva mai visto il fronte. Uno di loro viene freddato dall’ufficiale con un colpo di pistola: estrema punizione individuale ed esempio per tutti gli altri.
I giorni da dedicare alla patria finiscono in quel preciso momento: i militi sanno soltanto che si “va a crepare” ma non sanno più “né perché né perchì”.
E allora conta di più sacrificarsi per altri valori, meno altisonanti, più umani. È la ribellione contro l’ingiustizia subita.
Il protagonista sa che così non potrà mai diventare un eroe agli occhi del Re e del vate “rachitico”, ma lo sarà di certo agli occhi dei suoi compagni di sventura e davanti alla sua stessa coscienza.
Il tempo di un pensiero velocissimo e la decisione estrema si compie. Le conseguenze sono scontate.
Termina così la vicenda umana, e comincia la storia.
Come in una nemesi mai affiorata, i fatti della cronaca rimettono i tasselli nella loro posizione e chi narra di sé dopo la sua stessa morte si può prendere gioco della prosopopea post-bellica, rincuorato dal fatto che una ulteriore punizione non potrà mai arrivare, perché in fondo “a morire due volte non ce la fa nessuno”.
Il giovane fante, divenuto inconsapevole “ignoto”, riceve solenni onorificenze dai più altri rappresentanti delle istituzioni.
Ma tutto sommato, letta alla luce delle vicende narrate, la motivazione della decorazione calza a pennello, anche se chi la scrisse fu mosso da tutt’altro ragionamento… Il nostro eroe “prodigò il suo coraggio”, “cadendo combattendo”, “figlio di una stirpe nobile e di una millenaria civiltà”. Probabilmente la stessa civiltà che, proprio per coraggio, lo indusse a negare la guerra a costo della sua stessa vita.