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I tunnel della mia vita

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di Irma Hibert del 18/6/2022

NEL GREMBO MATERNO

Sono qui dentro da 9 mesi. È buio e umido, ma si sta bene. Stamattina quando ho aperto gli occhi il mio spazio vitale si è fatto ostile per la prima volta. Le pareti della mia casetta hanno cominciato a muoversi, a spingermi. Una specie di forza mi direziona verso la parte opposta di un tunnel del quale comincio a intravvedere l’uscita. Ho provato a resistere ma non ci riesco più, penso che sia arrivata l’ora di abbandonare questo posto sicuro che mi piace e intraprendere il mio nuovo cammino. Ho sentito dire, dalle voci che in questi mesi ho ascoltato quotidianamente, che questo si chiama nascita. Suppongo abbiano ragione. Non ho un manuale d’istruzioni da quando sono qui dentro, sento che mi batte il cuore, ho fame e sete, sento gioia e felicità quando la mamma mi parla, quando ride, quando accarezza la sua pancia perché so che mi sta pensando. Ma sono in pensiero. E se la fine di questo tunnel non mi piacesse, se ciò che mi aspetta fosse spaventoso, se il mio unico momento di gioia fosse adesso? Vedo una luce, si è fatta strada sempre di più verso di me in queste ultime ore, il tunnel si è allargato contestualmente alle pareti della mia casa che hanno cominciato a spingermi. Va bene, trattengo il fiato per un momento. Mi incanalerò. In fondo sono giorni che sto a testa in giù, questo stare sottosopra non mi piace. In qualche modo che non riesco a spiegarmi so che devo venire al mondo, so che devo abbandonare la mia casa sicura per trovarne una nuova. Dovrò imparare a cavarmela da sola. Qui dentro non mi dovevo preoccupare di nulla. Dall’altra parte però dovrò fargli capire se ho sonno, se mi danno fastidio, se ho bisogno di mangiare. Questo viaggio che sto per intraprendere è di sola andata, una volta venuta al mondo non potrò più tornare indietro. Ma forse in fondo non sarà così male. Mi è stata data un’opportunità di fare qualcosa di nuovo, di fare nuove esperienze.  Dicono che quando soffia il vento del cambiamento non bisogna nascondersi ma costruire un molino a vento. Il mio cambiamento sta per accadere. È il 21 luglio, 1980.

                                                               IL TUNNEL DI SARAJEVO

Questo tunnel è stato costruito durante la guerra civile in Bosnia, con lo scopo di collegare la città di Sarajevo con il territorio libero in seguito a 1700 giorni di assedio, uno dei più lunghi dell’epoca contemporanea. I suoi abitanti erano privati dell’acqua, luce e tutti gli altri bisogni primari, sottoposti a costanti bombardamenti e un’esistenza infame. Io all’epoca dei fatti avevo undici anni, ero una ragazzina che si affacciava alla vita, e nel 1995 a soli quattro mesi prima della fine del conflitto, i miei genitori avevano deciso di salvarmi la vita, organizzando la mia fuga attraverso il Tunnel di Sarajevo, conosciuto anche come il Tunnel della salvezza. Nel corso degli anni mi sono spesso chiesta se questo tunnel mi abbia davvero salvato la vita. Attraversarlo mi dato la possibilità di continuare ad esistere e respirare. Ciò che all’epoca non potevo sapere era che quella salvezza non avrebbe significato la libertà. Andavo infatti incontro ad una guerra diversa. Una guerra invisibile. Una guerra psicologica. Andavo incontro ad una nuova vita che avrebbe tardato anni a restituirmi anche un minimo briciolo di serenità e pace interiore. Oggi a distanza di tanti anni, guardandomi indietro sento che attraversare quel tunnel sia stata l’azione più coraggiosa che io abbia mai fatto nella mia vita. Ero da sola, con due pesantissime valigie in pelle che appartenevano ancora a mio nonno e al loro interno un sacco di sogni, timori e speranze che si mescolavano in un vortice turbolento e agitato, in un vortice che mi avrebbe portato molto lontano. Ciò che mi ricordo di quell’attraversamento è una spinta interiore che probabilmente è il senso stesso dell’esistenza e della vita. Quella sensazione che ti spinge ad agire, andare avanti, non pensare, non riflettere, non fermarti, non guardarti indietro a qualunque costo. Quella spinta che ti fa camminare sulla sottilissima linea che separa la speranza dalla disperazione, la vita dalla morte, la tragedia dalla salvezza, la speranza dall’abisso. Ricordo che una di quelle due valigie, che portavo con me la notte in cui attraversai il tunnel, racchiudeva alcuni cimeli della nonna. Mia madre mi aveva messo dentro qualche pezzo della preziosissima argenteria di famiglia che a quanto pare era degna di essere salvata, assieme alla mia vita. Mi sono sempre chiesta perché avesse deciso di mettere nella mia valigia quelle suppellettili che la maggior parte di noi oggi considera come cianfrusaglie, oggetti obsoleti che accumulano polvere. Per tanto tempo non sono riuscita a darmi una risposta ma poi l’illuminazione mi era arrivata in una notte insonne, come il fulmine a ciel sereno, come spesso accade quando la ragione viene messa a tacere. Quella notte avevo capito che quei semplici pezzi di metallo, infatti, sono stati lucidati, tenuti in tutta la loro brillantezza per più di mezzo secolo, forse anche di più. Erano il simbolo di un tempo che non c’è più. Erano il simbolo di tutto quello che era scomparso. Facevano parte di quel gruppo di oggetti attraverso i quali puoi ricordare un momento, una persona. Forse mia madre pensava proprio a questo. Preservare la memoria di chi ero, di chi eravamo, delle nostre radici. Infatti, ad ognuna di quelle posate in argento e piccoli fiori decorativi io attribuivo un ricordo, mi aiutavano a far tornare alla mia mente un’infinità di momenti felici della mia infanzia. Ah, le Vigilie di Natale a casa della nonna, con quel profumo dei suoi dolci, la tavola finemente decorata, con la sua argenteria al posto giusto. Di cose così non se ne vedono più, non se ne vendono più. Così in quella valigia che io portavo a fatica verso la luce, non ero ben consocia che trasportavo un mondo. Non stavo accompagnando me stessa verso una nuova vita, ma portavo le fondamenta per poterla costruire. Non potevo e non dovevo dimenticare la persona che ero. Ma in quel lontano 1995 non potevo saperlo. Anzi, da lì a poco avrei cercato di rinnegare tutto ciò a cui ero appartenuta fino a quel momento. Nell’approdare alla nuova città volevo essere una persona nuova. Peccato però che tutti siamo solo ed unicamente il risultato delle esperienze vissute e non capitoli chiusi di un libro che si possono dimenticare impressionandosi di fronte al suo finale.

Il TUNNEL DELLA MIA NUOVA CITTÀ

Sono arrivata a Trieste nel 1995. Era estate. Mi ricordo ancora del caldo, dell’afa, del sudore che mi si appiccicava sulla pelle. Ma non era solo per la temperatura torrida, era anche per l’emozione, il nervoso, l’incertezza verso la quale andavo incontro. Avrei dovuto incontrarmi con i cugini di mia madre, persone che non conoscevo, persone che per me avevano avuto un aspetto e una storia solo grazie ad alcune fotografie di famiglia. Invece ora me li trovavo davanti e con un sorriso imbarazzato provavo a salutare in una lingua a me sconosciuta. Sì, perché l’italiano proprio non lo parlavo. A parte Ciao e Arrivederci, non sapevo dire altro. Ero arrivata a Trieste in seguito al periodo più buio della mia vita. Avevo passato quattro anni in guerra, ero provata dalla paura, dalla fame, dalla mia adolescenza rubata, dai sogni infranti ed ero appena approdata ad un nuovo mondo che avrebbe dovuto risanarmi da tutte le mie ferite e restituirmi la vita. O almeno io lo credevo allora. Quant’ero ingenua! La vera “lotta per la sopravvivenza” stava appena per cominciare. La lotta per essere accettata, la lotta per non essere considerata, diversa, straniera, profuga, la lotta per trovare un mio posto nel mondo era soltanto all’inizio, ed era un percorso tutto in salita. In quei primi mesi, ho frequentato un corso di lingua italiana in modo da poter cominciare a comunicare almeno i miei bisogni primari. Passavo tutto il tempo a studiare perché avrei voluto imparare tutto e subito. Desideravo confondermi il prima possibile con gli altri, omologarmi, mimetizzarmi. Arrivavo talvolta davanti alla scuola di lingue ancora prima della sua apertura, e molto diligentemente aspettavo l’arrivo della direttrice o della segretaria.  Loro dopo aver aperto le luci e le finestre per cambiare l’aria stantia mi lasciavano entrare e io mi fiondavo nell’aula di ascolto e non uscivo quasi fino all’ora di pranzo. Ogni mattina prima delle ore 9 mi materializzavo in Via delle Zudecche e aspettavo. La segretaria deve avermi odiato un po’ perché sicuramente col passare dei giorni deve aver sentito la responsabilità di essere estremamente puntuale (cosa alla quale non era particolarmente portata) dato che sia con la pioggia sia con il vento e il freddo c’era una ragazzina che aspettava il suo arrivo. Talvolta di mattina mi chiedeva se volessi un caffè ma io, non essendo sicura se intendesse offrirmelo lei, rifiutavo sempre con gentilezza, anche perché non sapevo come spiegarle che nelle tasche non avevo una lira. Mi chiudevo così nell’aula immergendomi nello studio. Ero instancabile. Ero pronta a tutto pur di integrarmi il prima possibile, pur di cominciare a far parte, in modo serio, di quel mondo che ai miei occhi sembrava meraviglioso e aveva ancora molto da darmi. All’epoca avevo lasciato del tutto in disparte la mia lingua madre. L’avevo respinta in un angolo del mio cervello come inutile e dannosa, era infatti per me, l’ostacolo verso una lingua nuova nella quale dovevo ricominciare a vivere, cogliendo appieno la seconda occasione che la vita stessa mi aveva dato. Ciò che allora non avevo chiaro era il fatto che una lingua mai e poi mai poteva essere appresa dai libri, ma che andava sperimentata e vissuta. Quel mio chiudermi a riccio e proteggermi dal mondo con la mia corazza era il vero ostacolo che mi allontanava dalla mia meta. Avrei dovuto fare amicizie, ascoltare la radio, le canzoni, la televisione, cercare di parlare con le persone perché solo nella comunicazione avrei perfezionato i miei apprendimenti teorici e avrei cominciato ad integrarmi per davvero. Ma forse ero troppo giovane allora per capirlo. Il desiderio dall’altra parte di essere in tutto e per tutto uguale agli altri mi offuscava la ragione e non mi faceva vedere le cose nella giusta prospettiva. Oggi però, quando mi sono seduta per scrivere questo piccolo racconto, la lingua che è fluita fuori di me è stata l’italiano. Non era una scelta razionale bensì una scelta del cuore. In questa lingua nel corso degli anni ho imparato ad amare, odiare, arrabbiarmi, gioire. Per questo oggi posso definirmi italiana? Che identità ho? Cosa sono io? È la lingua che parliamo a definirci? Forse lo fa la nostra religione? Il nostro luogo di nascita? Oggi mi piace pensare che la mia identità sia semplicemente qualcosa che è un costante divenire, in costante trasformazione. Voglio essere tutto e niente, voglio essere il fiume che scorre; ciò che si trasforma e cambia. Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo, dicono. Questo è vero, solo il cambiamento è vita, il cammino, la strada, la scoperta.  Un tunnel da ripercorrere dall’inizio alla fine, sapendo che in quel punto finale del nostro arrivo già non saremo le stesse persone che eravamo nel punto in cui l’abbiamo imboccato. Io dunque dove sono? Sono in un unico tempo: il mio, ed oggi è il 18 giugno 2022.

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