di Davide Strukelj del 31/12/2020
Cos’è la classe sociale se non la percezione di appartenenza? E cosa c’è di veramente potente nel desiderio di appartenere alla propria classe sociale se non il profondo senso di comunità che essa infonde nei suoi membri?
Inserito nella propria comunità, che assume il significato di abitudini, linguaggio, ideali e dinamiche sociali, ogni individuo si muove tra le certezze determinate dall’intima conoscenza degli altri componenti. E dove non arriva l’esperienza diretta arriva la consapevolezza del sentire comune, che è l’opinione pubblica della propria classe sociale. Elisabeth Noelle-Neumann scrisse che l’individuo rifugge la sensazione di sentirsi isolato, ne fiuta il rischio ancor prima che questo si concretizzi e assume tutti i comportamenti necessari a scongiurarlo (“La spirale del silenzio“, 1984).
Negli anni caldi della lotta operaia, quando i miasmi del fascismo sconfitto dalla guerra tenevano banco nei discorsi ufficiali e nella chiacchiera del bar e i piccoli personaggi del potere locale del ventennio spesso occupavano ancora posizioni di rilievo, la classe era identità. Chi stava fuori era il nemico.
Da questo conflitto tra categorie sociali nasce il racconto del disagio interiore di un uomo che vive la discrasia tra una realtà da sempre guardata come un traguardo lavorativo e la sensazione intima di non appartenere alla nuova classe sociale raggiunta.
Ma ormai il dado è tratto e se da un lato il nuovo status pare irraggiungibile, dall’altro il travagliato percorso personale viene quotidianamente gravato dall’assillante percezione di non appartenere più al rassicurante “mondo di ieri”.
Nel descrivere questo profondo smarrimento personale, l’autore compone una preziosa immagine di un luogo, di un tempo e di un lavoro che è stato per decenni la vita stessa degli operai che si sono dedicati alla costruzione delle grandi navi.