di Davide Strukelj del 11/2/2020 – La sede romana del CONI è un grande palazzo color mattone dalla pianta a forma di H. La costruzione si affaccia sul fiume proprio dove si congiungono i lungotevere Cadorna e Diaz, che come noto sono due generali della prima guerra mondiale nominati contemporaneamente Marescialli d’Italia agli inizi del III anno dell’E.F., ovvero nel novembre del 1924. In quel punto è possibile attraversare il Tevere passando il ponte Duca d’Aosta, inaugurato nel 1936 ed intitolato al comandante della terza armata durante la prima guerra, al secolo Emanuele Filiberto di Savoia. Il palazzo ad H fu voluto da Mussolini, progettato dall’architetto Del Debbio, ed inaugurato nel 1932 quale sede dell’Accademia fascista di educazione fisica maschile e si affaccia sull’ampio piazzale De Bosis. Achille Lauro De Bosis è stato un letterato e antifascista noto per il celebre “volo su Roma”, una azione portata a termine in barba alla regia aeronautica che permise di riversare sulla capitale una pioggia di volantini eversivi contrari al regime. De Bosis trovò la morte durante il volo di ritorno dalla sua missione, mentre cercava di raggiungere la costa francese. Era l’ottobre del 1931.
Si sa che la toponomastica, talvolta, sa essere più cinica della storia e infatti il paradosso non finisce qui, tant’è che il citato palazzo ad H è “impreziosito” da una stele, un obelisco, che reca incisa col bel carattere del tempo la scritta “Mussolini Dux”.
Ora, è evidente che il piazzale sia stato intitolato a De Bosis dopo la fine della guerra (la norma vuole che per poter intitolare ad una personalità siano passati almeno dieci anni dalla sua morte, e comunque pare inverosimile che il regime potesse scegliere questo nome…), ed è noto che l’obelisco fu inaugurato il 29 ottobre 1932 per celebrare il decennale della marcia su Roma.
La domanda da porsi di conseguenza è: come si può intitolare ad un antifascista un piazzale dove fa bella mostra di sé un obelisco che reca la scritta “Mussolini Dux”? Ovvero: com’è possibile che in Italia esista ancora un monumento che reca una simile dicitura?
Il tassista che mi porta ai Parioli si lancia in una serrata analisi delle colpe dell’attuale amministrazione capitolina, sottolineando più volte che, come a Roma, anche all’Italia servirebbe un nuovo “uomo forte”, uno capace di “sistemare” le cose in pochi mesi.
Lascio cadere il discorso e poco prima di arrivare a destino gli chiedo se sia mai stato in Germania: “no, mai”. Di seguito gli chiedo cosa penserebbe se arrivato a Berlino si trovasse davanti ad una colonna con su scritto “Adolf Hitler – Führer”.
La risposta, istintiva, rasenta l’ovvieta’: “Non esiste una colonna così. E se fosse esistita l’avrebbero già abbattuta!”. Un minuto di silenzio e l’autista mi guarda nello specchietto retrovisore con un malcelato fastidio. La corsa prosegue e termina senza che sia più proferita una sola parola.
Inciso: so che questa storia del tassista ricorda molto l’incipit di “Costruire il nemico” di Umberto Eco, ma l’ho riportata solo perché è vera, e a questo punto posso concludere che i tassisti sono una autentica fonte di ispirazione. Con le dovute proporzioni, sia chiaro.
Sceso dal taxi mi fermo per un caffè.
Ripenso alla questione e mi torna in mente una celebre intervista a Carlo Ginzburg pubblicata su La Repubblica qualche anno fa.
Sosteneva Ginzburg, che ricordo essere il figlio di Natalia e di quel Leone Ginzburg torturato e ucciso dai fascisti, che la vergogna genera il migliore senso di appartenenza in un Paese.
La vergogna, sia inteso, e non il senso di colpa. Perché la colpa deriva da una co-reita’ che ormai, per il fascismo del ventennio, non trova quasi più nessun responsabile in vita nel 2020. Ma la vergogna per una storia comune che ci unisce, quella sì che riguarda anche il presente. È infatti possibile vergognarsi per le vicende del passato, ma solo per quelle del proprio Paese, non per quelle di un’altra nazione. Esattamente come mi ha insegnato lo sguardo indagatore del tassista interrogato sul Führer e la sua stessa ammissione: se ci fosse stato un monumento con la scritta “Adolf Hitler – Führer” lo avrebbero abbattuto. Loro. I tedeschi. A causa della condivisa vergogna per un passato che li unisce.
Ma dov’è la differenza tra il percorso della vergogna collettiva in Germania ed in Italia? Forse che da noi il senso di appartenenza sia poco sviluppato? Eppure, quando la nazionale di calcio vince i mondiali, gli italiani corrono in piazza ad abbracciarsi e a baciarsi. Quando uno scienziato italiano raggiunge un importante risultato, si sprecano fiumi di parole scritte e parlate e tutti diventano esperti della materia. Lo abbiamo visto con i premi Nobel ma anche col recente isolamento del corona-virus.
La nostra italianità ci appare vivace e genuina ogni qualvolta si presenti l’occasione per celebrarla, prorpio come fanno i tedeschi con la loro germanicita’…
Il problema sta nel fatto che la vergogna è un processo diverso: non basta un effimero inebriamento collettivo, non è sufficiente un gol o un titolo sui giornali. Per provare vergogna è necessario un processo di comprensione profondo, ragionato e condiviso. Serve tempo e sincera disponibilità. Bisogna capire cos’è accaduto e interiorizzare onestamente la verità. La colpa deve emergere chiaramente, la responsabilità dei singoli deve essere portata alla conoscenza di tutti e la “banalità del male” della moltitudine deve essere fatta propria dalla collettività. Solo così le generazioni che seguiranno potranno provare una sana vergogna condivisa e portatrice di quel generoso senso di appartenenza di cui ci ha parlato Carlo Ginzburg.
Ma la nostra storia è diversa.
In Italia non si è mai svolto un vero processo di Norimberga, i gerarchi del regime non sono andati alla sbarra in modo definitivo e nessun italico Heichman è stato giudicato a Gerusalemme.
Anzi, l’amnistia per i reati comuni del ’46, fortemente voluta per interessi referendari e poi progressivamente allargata nel corso dei successivi vent’anni, ha via via sopito il senso di colpa.
Le estradizioni richieste dagli stati vincitori per processare i nostri criminali di guerra hanno sempre trovato il fermo diniego dell’Italia neo-repubblicana.
Il progressivo revisionismo, spesso stucchevolmente incentrato sui crimini degli “altri”, che certamente ci sono stati, ha voluto attenuare le colpe riconducendole al “così facevan tutti”, di fatto destinando all’oblio eventi noti e meno conosciuti, leggi, circolari, atti ed azioni che chiunque, messone a diretta conoscenza, vivrebbe con intima e personale mortificazione.
Alla fine, una progressiva minimizzazione e un generalizzato perdono hanno alleviato i sensi di colpa e reso impossibile il processo di formazione di una sana vergogna collettiva per i misfatti dell’italico fascismo.
Nel pensare al futuro e al costo che tutto ciò produrrà, mi viene in aiuto San Tommaso d’Aquino con una sua celeberrima quaestio quodlibetalis.
Sosteneva il filosofo che un torto può essere riparato nei termini del risarcimento del danno cagionato, ed anche superato dal punto di vista morale grazie all’istituto del perdono. Resta il principio che neanche l’altissimo può rimuovere un fatto accaduto, giacché la verità, per sua natura, non può essere cancellata. Ciò che è stato non può contemporaneamente non essere stato: la verità è data, che la si ricordi o che si cerchi furbescamente di dimenticarla.
E si sa che le verità nascoste esigono di riemergere, e lo fanno sempre ad un prezzo altissimo.