di Stefano Pizzin del 31/3/2020 – Quando il premier britannico Boris Johnson ha dichiarato, salvo poi precipitosamente fare marcia indietro, che i suoi connazionali dovranno abituarsi a perdere i loro cari, quando quello olandese, il liberale Mark Rutte, ha spiegato che il mantenimento degli affari è la questione più importante, quando Trump ha raccontato agli americani che questo virus è come l’influenza o quando il demenziale presidente del Brasile, Bolsonaro, ha dichiarato che i cittadini del suo Paese non si ammalano mai, non siamo di fronte a gente stupida (beh, dai, magari il presidente brasiliano lo è) o cattiva, ma abbiamo politici che non fanno altro che applicare le regole che dettano l’agenda in politica e in economia da oltre trent’anni: liberismo, individualismo e ricerca del profitto su tutto. In questi giorni drammatici ci siamo così accorti che tutta la paccotaglia ideologica che è diventata egemonia culturale dopo gli anni ‘80 del secolo scorso è del tutto inservibile.
Ci servirebbe più Stato, ma ci siamo accorti che lo abbiamo demonizzato preferendo un volubile è
e inadeguato primato del privato. Ci servirebbe più welfare, quando lo abbiamo affettato in nome di un ipocrita non detto per cui “chi è povero lo è pure per colpa sua”. Ci servirebbe più debito pubblico, il tabù “più stupido degli ultimi decenni” (come scrisse Kenneth Galbraith, economista e consigliere di Kennedy). Ci siamo pure accorti che una società basata su precariato, su una mobilità ossessiva e che si illudeva di vivere solo di terziario e immaterialità, è dannatamente più fragile di fronte alle emergenze. Infine, ci siamo accorti che sfruttare l’ambiente fino allo sfinimento mette in cortocircuito il nostro rapporto con la natura e, alla fine, ne paghiamo le conseguenze.
Insomma, ciò che ci è stato insegnato, e spesso abbiamo ben introiettato, non funziona e andrebbe radicalmente ripensato.
La politica è pronta a farlo? Non mi pare ci sia questa consapevolezza. Basterebbe guardare a ciò che succede nell’Unione europea per rimanere ampiamente scoraggiati. Di fronte a una crisi sanitaria che oggi, pur in tempi diversi, ha colpito tutti e domani impatterà sulle tutte le economie, non c’è ancora alcuna direzione univoca, alcun tentativo concreto di orientare le politiche e le risorse sull’emergenza sanitaria e sociale. Certo, assistiamo a gesti di solidarietà tra i diversi Paesi ma ciò che manca è la consapevolezza che l’Unione è tale se mette insieme risorse e criticità, risparmi e debiti. Inizialmente è parso che ognuno si muovesse da se, tentando di trarre il massimo profitto dalle disgrazie altrui. Una scelta sciocca, a cui ha messo fine l’implacabile avanzata del virus.
Oggi siamo al punto che non è più in discussione la quantità di denaro da usare, quali strumenti finanziari applicare, è in discussione l’Europa stessa: se lasciarla come spazio di libero mercato o una entità davvero comune, sapendo bene che quel libero mercato la crisi lo sfascerà, lasciando campo libero a egoismi e concorrenza.
Ci deve essere nella politica, nella sinistra, un campo che non sia la rassegnata attesa dell’apocalisse tra un buon libro e un cognac, e neppure l’acritica riproposizione di vecchie ricette degli anni ‘90. Bisogna cambiare i paradigmi dell’economia e della politica, altrimenti le ferite di questa crisi non verranno rimarginate. Giustizia sociale, ecologia, ridefinizione delle nostre priorità: si deve lavorare su questo, senza approcci moralisti, senza immaginare un “uomo nuovo”, ma ridefinendo profondamente i meccanismi della nostra società. Si deve lavorare a questo, scontando ritardi enormi, basti solo pensare che, oggi, su questi temi, le parole più nette e radicali le sta dando Papa Francesco.
Il vero rischio è che, una volta finita la tragedia, tutto torni come prima e si appronti il banchetto per qualcosa di peggio.
Se cambiamo la cultura di fondo su cui regoliamo i rapporti economici e sociali il virus, forse, tra mille lutti, ci avrà costretto a fare qualcosa di utile.
Abbiamo cercato tanto, e probabilmente non troveremo mai il “paziente zero” della malattia. Abbiamo però il “paziente zero” dei nostri disastri ed è chi disse: “non esiste la società ma solo gli individui”. Oggi ci siamo resi conto che gli individui, da soli, non valgono niente.