di Maria Luisa Vincenzoni da Striscia Rossa del 26/1/2020 – Gadi Luzzatto Voghera, storico, già docente all’università Ca’ Foscari di Venezia e alla Boston University, è il direttore della Fondazione Centro documentazione ebraica di Milano. Questa istituzione, che ora opera in una partnership internazionale con il Mémorial de la Shoah di Parigi e la Fondazione Memoriale della Shoah di Milano, è un istituto culturale indipendente. Già nel 1957 la Federazione giovanile ebraica la costituì per “la ricerca e l’archiviazione di documenti di ogni tipo riguardanti le persecuzioni antisemite in Italia e il contributo ebraico alla Resistenza”. Dal 1986 il CDEC, dopo vari ampliamenti, si è costituito in fondazione e rappresenta oggi il principale centro di storia e documentazione sull’ebraismo in Italia.
Svolge attività scientifica, divulgazione sulla storia degli ebrei in Italia in età contemporanea, sulla Shoah, la sua memoria e didattica, l’antisemitismo e il pregiudizio dal secondo dopoguerra ad oggi. Organizza mostre e rassegne cinematografiche, orientamento e consulenza di studiosi a livello nazionale e internazionale. È presieduto dal professor Giorgio Sacerdoti, emerito di Diritto internazionale alla Bocconi.
Gli eventi prima, durante e dopo il Giorno della Memoria sono moltissimi in anche in Italia, e hanno coperto l’intero mese di gennaio.
Per il direttore Gadi Luzzatto Voghera, questo soverchiante calendario, tutto condensato a gennaio, non aiuta.
D. Professore, perché il Giorno della Memoria è, secondo lei, caricato di prodromi ed eventi successivi troppo numerosi nell’arco di così poche settimane?
R. Perché la “canonizzazione” della Memoria è l’esatto contrario del riportare all’oggi ciò che è stato per leggere il presente, perché tutte queste iniziative importanti e di spessore rischiano, cadendo tutte in un brevissimo periodo, di essere derubricate a eventi collaterali. A tutto danno della promozione della ricerca storica e delle iniziative per la didattica. Così si appiattiscono aree di indagine, come quella sul linguaggio d’odio, che stiamo da tempo studiando, su una data certamente importante in tutto il mondo, il 27 gennaio. Noi studiosi e docenti, tuttavia, abbiamo bisogno di uno spazio che cadenzi eventi e ricerche durante tutto l’anno. Altrimenti rischiamo di farle apparire come appendici o mere estensioni di un unico giorno, pieno di significati e che, proprio per questo, non può contenere tutto. Le faccio un esempio: stiamo sviluppando un progetto che si chiama “Dopo l’ultimo testimone”. Come collegheremo storia e memoria? Come insegneremo e rifletteremo sulla Shoah?
D. Come evitare questa sovrapposizione di significati, di eventi divulgativi e lunghe ricerche scientifiche, di giorno dedicato e di azioni civiche, studi storici, lunghi dialoghi che un giorno non può contenere?
R. Si cerca di capire in cosa stiamo sbagliando. Penso che vada riportato il giorno unico e che ci si debba attenere al tema introdotto dalla Dichiarazione di Stoccolma nel 2000 e recepito dalla legge italiana. Memoria del genocidio del popolo ebraico, degli altri perseguitati dal nazi-fascismo e dei giusti che seppero dire un no. Un giorno solo, importante e veramente condiviso.
D. Cosa è cambiato nel linguaggio d’odio antisemita?
R. Ieri era diffuso in determinati gruppi e non era un registro spendibile nell’arena pubblica. Oggi si sta riuscendo a far accettare nella quotidianità e nei più vari ambienti un pensiero ritenuto inammissibile e disonorevole in luoghi istituzionali, in grandi eventi sportivi, in conversazioni pubbliche che oggi si manifestano anche sui social media. È un linguaggio d’odio diffuso tra molte autorità pubbliche, leader italiani e internazionali. Un discorso di odio che tocca abilmente tutte le sacche del pregiudizio.
D. Accade sempre più spesso?
R. Sì. Ieri è accaduto a me, in una località lombarda, durante una conferenza pubblica promossa dall’Anpi su questo tema. Sono stato aggredito verbalmente da tre persone urlanti dopo aver pronunciato la parola “sionismo”. Si sono poi allontanati, una chiara provocazione organizzata ad hoc. Non mi accadeva credo da trent’anni. Episodi simili fanno saltare gli equilibri in una società, e minacciano anche il “giorno per giorno” di noi professionisti, studiosi e storici. Non è solo un occasionale rumore di fondo, è una costante intimidazione che certo si può ignorare ma che ci lascia più soli come cittadini, ebrei, storici.
D. Cosa pensa del Forum Mondiale sull’Olocausto in corso a Gerusalemme?
R. R. Penso che si sia voluto sancire un legame strutturale tra i settantacinque anni dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau e l’antisemitismo. Un meccanismo legittimo ma problematico, poiché rischia di ridurre l’evento Shoah al solo fenomeno dell’antisemitismo.
D. Cosa resta a suo avviso non detto?
R. Resta non detto, o sottaciuto, che il tentativo di distruggere l’ebraismo europeo ha seguito molto prima e sta seguendo oggi strade e direzioni diverse. L’ antisemitismo oggi è all’attacco. Le manifestazioni di odio antisemita seguono schemi tra loro diversi: il suprematismo bianco, la nostalgia del colonialismo che ha sancito come meno umani gli esseri dominati, l’Islam fanatico e molte altre agenzie del potere che, dal backoffice, muovono facilmente gli odiatori.
D. Cosa deve fare lo storico?
R. Assumere l’antisemitismo come disciplina, senza appiattirsi sui problemi che genera l’odio verso Israele come stato degli ebrei. È un tema che provoca un dibattito molto forte, con toni molto accesi, nelle comunità ebraiche. Si tratta di un dibattito legittimo e necessario. Ma non si può ridurre l’antisemitismo a quell’ambito e lo storico ha il compito di aiutare tutti a contestualizzare il fenomeno antisemita, a dargli appunto una prospettiva storica. In Francia la comunità ebraica sta diminuendo perché lì gli ebrei non si sentono sicuri. A chi dice che è esagerato ricordo che quando in Italia quando furono approvate le leggi antiebraiche la comunità fu colta di sorpresa: chi non ci credeva, chi, da fascista o da simpatizzante si sentiva al sicuro, chi sperava di far passare la nottata, chi entrò nella Resistenza, chi pose in salvo se stesso o almeno la propria famiglia.
D. Storia complicata.
R. Sì.Tutta la storia è complicata, se da studiosi ci abbandoniamo alle semplificazioni non facciamo più onestamente il nostro lavoro. E non diamo più strumenti per capire l’oggi. “Israel” era un settimanale che negli anni ‘30 venne preso d’assalto da squadristi ebrei. Oggi nelle comunità ebraiche si registra una forte violenza verbale contro alcune voci critiche. Rispetto, anche se posso non essere d’accordo con alcune loro posizioni, Moni Ovadia, Gad Lerner, o Giorgio Gomel, economista e co-fondatore di gruppi per la pace. Gomel ha sostenuto ad esempio che l’abbraccio di Netanyahu agli etno-nazionalisti nostrani mette in pericolo gli ebrei in Europa. Negli ambienti ebraici ora ha molte difficoltà ad esprimersi, non viene invitato a conferenze.
D. Come leggere queste divisioni che portano anche ad escludere delle persone dentro le comunità ebraiche?
R. Per quello che è: una strategia dell’antisemitismo diretta a colpire la comunità ebraica dividendola.