di Davide Strukelj
A Monfalcone, negli ultimi giorni, a seguito della decisione di intitolare a Norma Cossetto una gradinata del locale porticciolo, è riaffiorato il tema della memoria storica e della sottostante opportunità politica.
Nel commentare, vorrei partire da alcuni stralci di testi, presi a solo titolo di esempio, che riguardano proprio quei tempi gloriosi della storia italiana.
“Si sentivano grida atroci di gente torturata, di giorno e di notte (…). Donne sconvolte, terrorizzate, con la schiena, il petto e le gambe piene di ecchimosi vaste e di gonfiori (…). Vidi la Signora (…) che aveva la mano sciancata. La martoriarono legata per quarantacinque minuti su un cavalletto, la spogliarono di tutto e con le sigarette le bruciarono l’ombelico (…). Lo stesso giorno sono stata denudata completamente. Sono stata percossa con manganelli di ferro e calci. (…) mi hanno messa sulla cassetta di tortura e mi hanno percossa col manganello (…) anche alle mammelle mi hanno prodotto ustioni con sigarette accese. Ho saputo che un detenuto mostrava le lesioni prodotte ai genitali dai morsi di un cane, contro di lui aizzato. (…) Quando volle mettermi il tubo di gomma in bocca, poiché io tenevo la bocca chiusa, con un colpo del tubo stesso mi ruppe tre denti”. (1942-1943)[1]
Su questi fatti intervenne il Vescovo Santin con una missiva nella quale scrisse che “uomini e donne vengono seviziati nel modo più bestiale. Vi sono dei particolari che fanno inorridire” (1943).[2]
Ovviamente, leggere queste righe, che rappresentano solo una piccola parte delle pratiche del tempo, e pensare alla giovane Norma produce indignazione, sgomento e dolore. L’empatia verso la vittima di un sopruso così crudele e gratuito, di una violenza tanto “animalesca” ci prende allo stomaco, costringe le nostre viscere e spesso fa apparire qualche lacrima sugli occhi dei più sensibili.
Il fatto è che queste righe si riferiscono alle pratiche dei fascisti rivolte agli anti-fascisti.
In altre parole queste erano le prassi che amici e colleghi del papà di Norma riservavano agli oppositori del regime. Perché lo facevano? Ci viene in aiuto una importante pubblicazione, diretta dal Duce in persona, che in un numero speciale dedicato alla Venezia Giulia ben specifica come occorra “eliminare dalla vita pubblica (…) gli agitatori slavi”. Come? Beh, oltre a tutte le procedure che ben conosciamo, ad esempio impedendo “agli avvocati slavi, che sono pericolosi, la libera attività”, e togliendo “i maestri slavi dalle scuole, i preti slavi dalle parrocchie”, eccetera. Così scrive, già nel 1927, Giuseppe Cobol. [3]
E coloro che si opponessero a tale disegno? Ebbene è ancora il Giuseppe Cobol, poi divenuto Cobolli Gigli, e sotto lo pseudonimo di Giulio Italico, a spiegarci con una filastrocca popolare quale sia “il degno posto di sepoltura per chi, nella provincia, minaccia con audaci pretese la caratteristica nazionale dell’Istria”: [4]
A Pola xe l’Arena,
La “Foiba” xe a Pisin
Che i buta zo in quel fondo
Chi ga zerto morbin.
E a chi con zerte storie
Fra i pié ne vegnerà,
Diseghe ciaro e tondo:
Feve più in là, più in là
Idee chiare, vero? Eh sì, già nel 1919 il Cobol sapeva come trattare il problema di chi non si volesse adeguare, come a dire: le foibe e il loro utilizzo erano piuttosto note e praticate da tempo… anche da chi, come Giuseppe Cobolli Gigli, divenne poi Ministro del Governo fascista e stretto collaboratore del Duce.
Venendo alle modalità più tradizionali e conosciute quali stragi, maltrattamenti, sevizie, esecuzioni di massa, infoibamenti, abusi e infanticidi, per avere una visione alternativa alla narrazione della storia riscritta dai novelli “patrioti” italici, possiamo rimandare all’interessante fascicolo redatto dal Governo Jugoslavo nel 1946, decisamente ricco di copie di documenti italiani, fotografie e resoconti dettagliati riferiti alla gloriosa occupazione italiana dell’Istria e della Dalmazia.[5] Vi risparmio i particolari.
Tornando ai giorni nostri, sugli ormai onnipresenti social una pletora di “esperti wikipedisti” si è prodigata in rocamboleschi copia-incolla di stralci di articoli e testi di dubbia formazione e origine, cercando di produrre motivazioni etiche, secondo il loro punto di vista incontestabili, a sostegno di una sorta di laica santità della famosa ragazza istriana. Della vicenda di questa giovane fascista è stato scritto molto, talvolta anche maldestramente, purtroppo, e talaltra enfatizzando alcuni aspetti, anche orridi, con fini apologetici e fortemente evocativi sul piano delle emozioni più profonde e personali. Andiamo oltre.
Con le poche righe in premessa, ho cercato di fornire un modesto inquadramento e, nel farlo, proprio per prendere le distanze dagli esperti dei social-commenti, ho citato esclusivamente fonti originali, ovvero pubblicazioni delle quali possiedo una copia che posso consultare direttamente e, ovviamente, fornire agli interessati. Un modo semplice, me ne rendo conto, ma diverso dalla reiterazione compulsiva di luoghi comuni tipica di molta propaganda.
Comprendo che ai sostenitori della beatificazione della figlia del podestà fascista gli stralci riportati in apertura potrebbero essere suonati famigliari, addirittura conosciuti nel contesto della narrazione del martirio cossettiano. Sevizie, torture, processi sommari, uccisioni, infoibamenti… tutto l’armamentario propagandistico tipico della divulgazione della destra nostrana. Eppure, come abbiamo visto, si tratta esattamente del contrario, ovvero tutti questi dettagli sono ricompresi nei racconti delle vittime dei colleghi del podestà Cossetto. Così procedeva in quelle terre il regime fascista e, come si evince dalle deposizioni agli atti, tutti questi trattamenti non solo venivano elargiti con gran generosità, ma anche pubblicizzati con dovizia di particolari acciocché la popolazione li conoscesse per bene.
Naturalmente, ciò che accadde in seguito alla fine del regime fascista non fu certo un processo di delicata comprensione. Rese dei conti, gestione sommaria della giustizia, procedure spicciole e sbrigative furono all’ordine del giorno, praticate soprattutto da gruppi locali e autonomi, seppur tollerate o in qualche modo accettate dagli organi superiori.
Ma d’altro canto, e come è stato scritto un milione di volte da autori sicuramente più quotati e preparati del sottoscritto, decontestualizzare i fatti storici è un errore assai grossolano. Sappiamo infatti che l’analisi storica priva di contesto può portare a interpretazioni erronee e talvolta manipolative. Tipicamente il giudizio sugli eventi avvenuti nei territori di confine dopo un conflitto richiede una comprensione delle tensioni etniche, politiche e sociali preesistenti. In molte regioni europee il dopoguerra ha visto atti di violenza come risposta ritardata alle oppressioni subite durante il conflitto e queste reazioni, purtroppo, sono state spesso interpretate isolatamente, senza riferimento alle provocazioni o alle politiche che le hanno scatenate.
Ma di questo, ne sono certo, ogni persona di buon senso ha una visione chiara e consolidata… ogni persona che non desideri strumentalizzare, ovviamente.
Qui finisce il contesto, che evidentemente meriterebbe, e ha meritato negli anni, ben più completa trattazione. E qui comincia il tema dell’opportunità.
Monfalcone è (diventata) una cittadina divisa, spaccata da una politica cieca e inconcludente che ha fatto della propaganda l’unica arma della promozione di sé stessa.
La lotta agli stranieri, la lotta i lavoratori immigrati, la lotta ai musulmani, la lotta alle biciclette, la lotta al cricket, la lotta ai non italofoni, la lotta ai commercianti etnici, la lotta agli occupatori di panchine, la lotta alle aziende portatrici di lavoro straniero, la lotta alle associazioni impegnate nei processi di integrazione, la lotta alle moschee, la lotta alle donne musulmane, la lotta ai giovani che provano a integrarsi ma che mantengono una loro identità culturale, la lotta alle manifestazioni per la libertà di culto, la lotta al colore della pelle, la lotta alla lingua araba…. Continuo? Penso possa bastare, nonostante tutto.
Perché questa lotta? Beh, è chiaro anche a chi non vuol vedere: cementare e consolidare un consenso basato sulle paure e sull’ignoranza; ecco: l’ignoranza, l’ho detto.
A quale fine? Anche questa domanda pare alquanto retorica: il fine è il tornaconto personale.
E ora la conclusione sull’opportunità.
Un Sindaco che ha distrutto una cittadina pacifica e operosa instillando la paura, il risentimento e l’odio e che ha già conseguito il suo risultato elettorale a costo della tenuta sociale della sua città; un Sindaco che lascerà dietro al suo mandato un cumulo di macerie sociali che qualcuno dovrà (forse) prendersi in carico di ricomporre; un Sindaco che vuole diventare famosa su Rete 4, costi quel che costi, anche se questi costi sono la devastazione della sua cittadina … ebbene, un Sindaco così aveva la necessità di spaccare l’opinione pubblica anche su questo tema? Insomma, era necessario “accarezzare” le anime ultra-destrose anche in questo modo e in spregio ai mille sentimenti della nostra popolazione che ancora culla in memoria nonni e parenti partigiani e martiri della Resistenza?
Io dico che non serviva. Non serve oggi e non servirà domani.
E dico anche che questa riscrittura storica dovrebbe avere una fine.
Andate a Lipa, a Podhum o in molti altri luoghi delle nostre terre, se avete occasione, e leggete le date di nascita e di morte delle vittime della ferocia nazi-fascista.
Poi fatevi un’idea di che cosa sia stato quel ventennio per chi l’ha vissuto da succube e in prima persona.
Dopodiché provate a empatizzare con quelle persone, ovvero mettetevi nei loro panni, e pensate ai fascisti, alle loro prepotenze, alle loro crudeltà consumate a danno dei vostri cari e di voi stessi.
Fatto? Bene, ora vi posso augurare un buon tramonto sulla scalinata Cossetto, la scalinata a nord-est, nella cittadina dove la Sindaco, ai soli fini della sua propaganda, cambia la nostra storia e anche il punto cardinale dove il sole va a riposare.
[1] Testimonianze tratte dalle deposizioni presso la Corte straordinaria di Assise di Trieste, già in “Italia, fascismo e antifascismo nella Venezia Giulia (1918-1943), Elio Apih, 1966 (collezione personale) e “Dallo squadrismo fascista alle stragi della Risiera”, a cura di ANED -Trieste, 1974 (collezione personale)
[2] ibidem
[3] “Gerarchia”, Anno VII N. 9, settembre 1927 Anno V (collezione privata)
[4] “Trieste la fedele di Roma” (1919), Giulio Italico (collezione privata)
[5] “Saopcenje o talijanskim zločinima protiv Jugoslavije i njenih naroda” (1946), Federativna Narodna Republika Jugoslavija (collezione privata) (“Dichiarazione sui crimini italiani contro la Jugoslavia e i suoi popoli”, Repubblica Federale Popolare di Jugoslavia)