di Cosimo Risi del 27/10/2023
L’Unione europea ritrova l’apparente unità in seno al Consiglio europeo. Le divergenze dei giorni scorsi sembrano accantonate a favore del messaggio unitario: solidarietà a Israele per l’attacco subito e appello a non calcare la mano nella reazione; richiamo dei diritti del popolo palestinese da riconsegnare alla guida dell’Autorità Palestinese.
Tradotto dal linguaggio diplomatico, l’appello europeo significa sostanziale equilibrio fra le parti, con un occhio di riguardo a Israele stavolta in veste di aggredito e non di occupante. Il terrorismo spaventa non solo per gli scempi che compie nella regione ma per i cascami nel cuore d’Europa. Ne è prova la stessa Bruxelles che ospita il vertice, per non parlare della Francia, ormai teatro prediletto del terrore in versione export.
La comunità ebraica francese, che ancora conta centinaia di migliaia di cittadini, ne è comprensibilmente scossa. E d’altronde alcuni ostaggi nelle mani di Hamas hanno la cittadinanza della Repubblica, anche se i sequestratori considerano come israeliani anche i cittadini dal doppio passaporto.
Il punto saliente del comunicato europeo riguarda la riapertura di credito all’Autorità Palestinese, nello sforzo audace di distinguere fra i Palestinesi “affidabili”, quelli amministrati dalla AP e dal Partito Fatah, ed i Palestinesi “inaffidabili”, quelli amministrati da Hamas. Estromettere Hamas da Gaza, ripristinare nella Striscia il potere dell’AP, riannodare il negoziato con Israele verso la soluzione due popoli – due stati.
La formula sacramentale risale agli Accordi di Oslo dei primi Novanta, è rilanciata nei consessi internazionali fino alle ultime dichiarazioni dell’Amministrazione americana, le sole che contano nella politica mediorientale, di fatto è messa a repentaglio dagli sviluppi sul terreno.
L’infittirsi degli insediamenti ebraici in Cisgiordania rende impossibile la continuità territoriale dello stato palestinese, sempre che gli insediamenti non siano dichiarati parte integrante dello Stato d’Israele o sgomberati con la forza. Il precedente fu quando il Premier Ariel Sharon decise di abbandonare Gaza e sfrattò i coloni in malo modo. Allora si trattava di qualche migliaio di persone, ora si tratta di centinaia di migliaia con una rappresentanza nel Governo di destra – destra.
Il Gabinetto di guerra a Gerusalemme non è lo stesso del Governo precedente il 7 ottobre 2023, ha natura provvisoria, dovrebbe durare finché dura l’emergenza bellica. Poi le posizioni torneranno quelle di prima?
L’utopia distopica dell’Unione sta nella chiamata all’Autorità Palestinese. Si omette che la leadership di Abu Mazen e Fatah non riceve il bagno elettorale dal 2006, che le nuove elezioni sempre promesse sono sempre rinviate, che i sondaggi favoriscono la crescita di Hamas. Vincere le eventuali elezioni con l’aiuto delle forze armate di Israele, entrare a Gaza su un carro armato di Tsahal – è l’immagine della compagna di Marwan Barghouti, essendo questi all’ergastolo e impedito di parlare all’esterno – non è il viatico giusto per ripristinare il prestigio dell’Autorità Palestinese.
La Signora argomenta che Marwan, prigioniero o libero, vincerebbe le nuove elezioni, costituirebbe un gabinetto di trentenni in rottura con gli ottuagenari o quasi dell’AP attuale, proseguirebbe la lotta per spingere la controparte al negoziato. Non siamo terroristi, siamo agenti della liberazione. Che poi l’assetto futuro sia quello bi-statuale o confederale, è da vedere. Ciò che importa è che la futura Palestina abbia un governo giovane e intraprendente. E perciò autorevole.
Il dibattito in seno alla comunità palestinese è sfiorato dal dibattito in seno al Consiglio europeo. In questa fase bisogna superare lo stallo delle tre posizioni ai vertici istituzionali: di Charles Michel, di Ursula von der Leyen, di Josep Borrell. Per non parlare delle esternazioni dei dirigenti nazionali che si sono recati in missione in Medio Oriente per solidarizzare con Israele e trattare la sorte degli ostaggi nazionali.
La nostra Presidente del Consiglio si è inserita nella teoria dei missionari, con Scholz, Macron, Sunak. Putin resta a Mosca, i suoi diplomatici ricevono le rappresentanze di Hamas, Hezbollah, Iran. La Russia si pone in controtendenza: a mostrare che c’è sempre laddove si può creare un problema agli Stati Uniti. In questo caso la vicinanza ai movimenti islamisti contrasta la tradizionale politica interna di lotta all’islamismo: si veda il caso Cecenia. La coerenza stinge a favore della convenienza.