di Livio Isaak Sirovich del 21/9/2023
Domenica 10 settembre a Basovica/ Basovizza si è tenuta l’annuale commemorazione dei giovani sloveni del TIGR Ferdinand Bidovec, Fran Marušič, Zvonimir Miloš e Alojz Valenčič, uccisi il 6 settembre 1930, dopo un processo farsa celebrato da un illegale tribunale fascista. La loro colpa era quella di lottare per la salvaguardia del diritto all’esistenza del popolo sloveno, della sua lingua e della sua cultura.
Riportiamo il discorso commemorativo di Livio Isaak Sirovich, ricercatore storico, tenuto in quella occasione
Dragi prijatelji, gánjen sem, da sem dánes tu z vami na takó pomémbni svečánosti. Govorìm kot Italiján, ki žal ne znà slovénsko.
Cari amici, vi porto la mia commossa partecipazione, da italiano che non conosce lo sloveno e che si è reso conto di avere – a causa di questa ignoranza – perso molto della cultura delle nostre terre. E ciò per via della impostazione di fondo nazionalistica italiana della scuola, delle associazioni e dei giornali di lingua italiana.
Non ho difficoltà ad ammettere che fino ai 20 anni sono cresciuto senza praticamente rendermi conto che una parte notevole della nostra popolazione è slovena o italianizzata di recente.
Magari si valorizzavano le comunità greca, serba, ebraica, ma gli sloveni restavano in ombra.
Forse iniziò ad aprirmi gli occhi la grave bastonatura subita l’8 dicembre 1970 da un mio compagno di università, finito all’ospedale semplicemente perché in Piazza Sant’Antonio era stato riconosciuto come sloveno di sinistra da un gruppo di coetanei neofascisti. Con una spranga di ferro, gli avevano inferto una vasta ferita alla nuca e rotto il naso.
Fu allora che notai come non pochi giovani neofascisti portassero cognomi di chiara origine slovena. Questo livore antisloveno da parte di ex-sloveni – addirittura con sfumature razziste! – mi sembrava un controsenso. Guarda caso, anni dopo, la schizofrenia identitaria dei neofiti di una certa nazionalità o religione contro gli appartenenti al loro stesso gruppo di origine – sloveni, austriaci, ebrei o altro – è entrata in vari libri che mi è capitato di scrivere.
Una delle circostanze più evidenti in cui italiani e sloveni non si capiscono sono proprio le commemorazioni dei quattro giovani ammazzati in questo luogo. Non ci capiamo perché le Autorità di governo non hanno mai voluto che noi italofoni studiassimo lo sloveno, perché alcuni di voi sono comprensibilmente sulla difensiva per le esperienze del passato e poi, diciamocelo: perché siamo un po’ tutti condizionati dal nazionalismo.
Così, a parte chi coltiva la Storia e legge qualche saggio, edito soprattutto dal nostro benemerito Istituto regionale per la storia della Resistenza e dell’Età contemporanea, noi italofoni in genere non siamo raggiunti da informazioni riguardanti la fucilazione qui avvenuta. Non mi vergogno a dire, ad esempio, che, pure avendo ai tempi dell’università conosciuto di persona e ammirato il pittore Lojze Spacal e avere acquistato una riproduzione in serie della sua xilografia dedicata a Bidovec, Marušič, Miloš e Valenčič, non avevo “capito” un gran ché.
Solo molto tempo dopo mi sono reso conto che praticamente per tutti voi essi sono semplicemente i “quattro eroi”. All’opposto, moltissimi fra noi nemmeno conoscono l’episodio e parecchi li giudicano semplicemente “terroristi condannati da un tribunale italiano”, frase purtroppo ricorrente in lettere alla stampa, anche se la condanna era stata emessa in un contesto di durissima persecuzione antislovena e da quel mostro che era il Tribunale speciale fascista.
Nel 1928, il regime fascista aveva appena portato a termine la chiusura di tutte le scuole e associazioni slovene, la vostra lingua era proibita ovunque, si cercava di estirparla anche dalle funzioni religiose. Gli sloveni si resero conto che nella Venezia Giulia e in Istria il regime italiano (non era solo il Fascismo ad essere anti-slavo) perseguiva una specie di genocidio culturale. In particolare, la situazione era assolutamente insopportabile per molti giovani sloveni, tanto da spingerli a mettere in gioco la propria vita. Fu così che essi tentarono una delle prime resistenze armate al Fascismo.
Come italiano non ho quindi imbarazzo a celebrare questi giovani. Lo faccio anzi con commozione, anche se essi – inesperti e temerari – commisero pure gravi eccessi, e perfino qualche stupidaggine. Capita quando si è messi con le spalle al muro. E avevamo messo con le spalle al muro centinaia di migliaia di nostri concittadini solo perché di altra nazionalità. Ad esempio, il TIGR-Borba cercò di boicottare le elezioni-farsa del marzo 1929. A Beram (Pazin-Pisino, Istria), i giovani del TIGR non trovarono di meglio che sparare a terra davanti ai contadini condotti ai seggi dai militi fascisti. Col risultato che i proiettili di rimbalzo causarono un morto e vari feriti. Il 10 febbraio 1930 venne invece messa una bomba nella redazione del giornale fascista Il Popolo di Trieste, che conduceva una spietata campagna di stampa contro “gli slavi”. L’ordigno sarebbe dovuto scoppiare dopo che le maestranze erano tornate a casa, e invece perse la vita un redattore trattenutosi in ufficio.
I giovani della Borba cercavano di evitare vittime innocenti, ma erano consapevoli che potevano capitarne. Si erano fatti gli stessi scrupoli morali che l’anno prima avevano turbato gli aderenti al movimento antifascista italiano clandestino “Giustizia e Libertà” e si erano risposti come quegli antifascisti italiani. Infatti, sul luogo dell’attentato lasciarono un numero del 1929 proprio del giornale “Giustizia e Libertà”, che aveva risolto il dilemma ripubblicando le parole dello stesso Mussolini, quand’era ancora socialista: «Convengo senza discussione che le bombe non possono costituire, in tempi normali, un mezzo d’azione socialista – aveva scritto il futuro “Duce” – Ma quando un governo, sia repubblicano, sia monarchico, vi perseguita o vi getta fuori dalla legge e dall’umanità, oh!, allora non bisognerebbe maledire la violenza, anche se fa vittime innocenti».
Ma Mussolini era completamente privo di dignità e quei quattro ragazzi li fece comunque ammazzare.
Non pochi miei connazionali mi affrontano rinfacciandomi tre parole a loro modo di vedere dirimenti: “Trst je naš”. Mi rimproverano cioè per quello che essi giudicano un cedimento alle rivendicazioni degli “slavi”. Rispondo con due argomentazioni: 1) secondo me, tutti i nazionalismi sono malattie dello spirito e ancestrale retaggio di branco animale; 2) è però inutile negare che la specie umana si divide da sempre in tribù e che da metà ‘800 i moderni nazionalismi hanno fatto breccia dappertutto. Dato, purtroppo, questo “spirito del tempo” perché anche gli sloveni non avrebbero avuto il “diritto” di nutrire un loro nazionalismo? In fondo, noi italiani volevamo dominare il Mediterraneo, i Balcani etc. tanto da annetterci oltre 500.000 sloveni e croati nel 1918 e da aggredire Grecia e Albania, nonché il Regno di Jugoslavia il 6 aprile 1941. Sì, volendo prendersi i territori con passata presenza slava, alcuni estremisti jugoslavi puntavano al confine sul Tagliamento. Ma noi italiani? Noi pretendevamo almeno il Bosforo!
È lo “Stato-Nazione” la nostra comune rovina. L’unica soluzione sarebbe il totale rispetto di tutte le minoranze a prescindere dal vai e vieni dei confini, ogni famiglia dovrebbe poter continuare a vivere in casa propria e nella comunità secondo i propri usi.
Dal 1927-28 per gli sloveni in Italia ciò era diventato impossibile.
Ho pensato di rendervi partecipi di una circostanza terribilmente vergognosa avvenuta pure in questo luogo (e probabilmente anche al poligono di Opcine nel 1941), un fatto quasi incredibile se non fosse stato confermato da una sentenza definitiva del tribunale di Trieste (ne ho scritto in “Cime Irredente”).
Pare che il vero e proprio odio contro “i s’ciavi” – tra virgolette – avesse spinto alcuni italiani malati di nazionalismo a esibirsi in ignominiosi atti scaramantico-“patriottici” nei confronti dei corpi di antifascisti sloveni appena fucilati. Il numero del 6 aprile ’46 del Giornale degli Alleati anglo-americani riferisce di un processo a un impiegato della RAS – nel ‘41 tenente della Milizia Volontaria – «imputato di aver preso parte volontariamente il 15.12.41, a Opcine, in concorso con sconosciuti, all’esecuzione capitale di un gruppo di sloveni» (il famoso secondo processo di Trieste; ndr). In udienza, quattro colleghi [italiani] di lavoro dell’imputato avevano deposto che in ufficio egli si era vantato di averlo fatto «e possedeva pure un fazzoletto intriso di sangue degli uccisi». Ma il tale era stato assolto per insufficienza di prove.
Su La Voce Libera (6 agosto 1946 e 3 aprile 1948), sul Corriere di Trieste, e sul Messaggero Veneto (lo stesso 3 aprile 1948) si può invece seguire un processo analogo, relativo questa volta alla fucilazione del 1930, e conclusosi con una condanna definitiva. Protagonista un personaggio singolare, tale Giuseppe Menassè, già redattore del giornale fascista di Trieste nonché all’epoca primo traduttore di Kafka in italiano, poi anche impresario di avanspettacolo.
Dopo il ribaltone, anche costui aveva tentato di riciclarsi come antifascista, frequentando nell’estate del ’45 le riunioni nello studio del pediatra Bruno Pincherle. Ex internato politico, il medico conosceva, ma per sentito dire, i suoi trascorsi fascisti e le “voci” su certi suoi terribili eccessi. Tant’è che (essendo anche un magnifico caricaturista) all’epoca egli ritrasse più volte il Menassè a quattro zampe nell’atto di cibarsi di escrementi.
Fu Ercole Miani, il fondatore dell’Istituto della Resistenza, ad accusarlo pubblicamente come il «cinico profanatore dei quattro generosi sloveni giustiziati a Basovizza nel settembre 1930: quello che intinse il dito nel sangue di uno dei martiri!». Menassè lo querelò per diffamazione, ma commise l’errore di concedergli la facoltà di provare il fatto. E in tribunale Miani portò testimoni: un noto giornalista fascista e il medico incaricato di constatare il decesso dei fucilati. Si accertò che «degli intervenuti alla esecuzione, tale Giuseppe Menassè compì con sadico gusto il gesto di intingere la mano nel sangue delle vittime, di tagliare una cima della corda con la quale i quattro fucilati erano stati legati, per poi conservarla quasi come cimelio di ignobile vittoria». «Lo stesso pubblico ministero, viste le risultanze, rinunciò a sostenere l’accusa» di diffamazione contro Miani. «Il Tribunale ha assolto il querelato per aver raggiunto la prova dei fatti addebitati al Menassè e lo ha condannato al pagamento di Lire 30.000». Il losco personaggio emigrò oltre oceano.
Leggo in un libro di Milan Pahor il telegramma con il resoconto dell’inviato personale di Mussolini al primo processo di Trieste: “Mentre venivano condotti [all’] esecuzione cantavano canti slavi”.
Ebbene, dobbiamo tutti – anche noi italiani – a persone come Ferdo Bidovec, Fran Marušič, Zvonimir Miloš e Alojz Valenčič se possiamo ancora tutti gioire delle vostre canzoni.