Vector vintage icon of a pink megaphone on vintage background. Vector pink megaphone on halftone background. Protest or propaganda.
di Davide Strukelj del 15/01/2023
Sono passati quasi cento anni da quando Edward Bernays rivelò al mondo intero che una “minoranza (aveva) scoperto di poter influenzare la maggioranza in funzione dei suoi interessi” poiché “ormai (era) possibile plasmare l’opinione delle masse per convincerle a orientare nella direzione voluta la forza che (avevano) da poco acquisito” (E. Bernay, Propaganda, 1928).
Diciamolo francamente, a leggerla così oggi ci pare una cosa davvero scontata. Eppure, se ci soffermiamo a ragionare, è tutt’altro che banale. Anche perché Bernays ci spiega nel dettaglio che “adattata con cura alla mentalità delle masse, la propaganda diventa uno strumento indispensabile della politica, sia per essere eletto a una carica, spiegando e rendendo popolari nuove problematiche, sia nell’amministrazione quotidiana degli affari pubblici”. Esatto: sia per rendere popolari nuove problematiche da utilizzare ai fini del consenso personale, sia per gli “affari correnti”.
Insomma, la propaganda serve a introdurre nel dibattito pubblico specifici temi che sono funzionali al risultato elettorale, e serve ottimamente anche a gestire quel consenso ormai acquisito nella pratica quotidiana, determinando l’agenda degli argomenti e definendo i centri di attrazione dell’interesse pubblico.
In fondo, “la manipolazione consapevole e intelligente delle opinioni e delle abitudini delle masse svolge un ruolo importante in una società democratica, coloro i quali padroneggiano questo dispositivo sociale costituiscono un potere invisibile che dirige veramente il paese”.
Chiaro, no? Leggendo queste righe vi viene in mente qualcuno in particolare? Se sì, credo che abbiate indovinato: in questi casi l’intuito funziona decisamente meglio del ragionamento…
Ottant’anni dopo la pubblicazione di “Propaganda”, Chris Anderson, in pieno stile Fukuyama, decretò “la fine della teoria” intesa come la non necessità di utilizzo dei potenti modelli matematici teorici ai fini della comprensione delle dinamiche sociali (C. Anderson, Wired Magazine, 2008). In altre parole, “l’analisi dei big data permette di conoscere modelli di comportamento che rendono possibili anche delle previsioni: al posto dei modelli basati su ipotesi subentra il confronto diretto dei dati. La correlazione sostituisce la causalità. La domanda sul com’è diventa inutile, rispetto al così è”. (Byung-Chul Han, “Nello sciame”, 2013).
Tutto chiaro, vero?
In buona sostanza, chi oggi gestisce i dati, cioè le informazioni, si può permettere di trascurare la teoria, ivi incluso il suo costitutivo margine di incertezza: basta interpellare la “verità” per capire il mondo, e questo lo si può fare in tempo reale. Facile!
Ma a cosa serve tutto ciò? Serve a Bernays, ovviamente. Eh sì, perché se puoi sapere cosa interessa, ovvero quali sono le preoccupazioni che attraversano la massa, e sai anche quale soluzione la stessa massa gradirebbe di più, ecco che d’un tratto hai costruito il post perfetto, quello da centomila like.
Insomma, i big data e l’intelligenza artificiale ti possono servire su un vassoio tutti gli strumenti di propaganda che il vecchio Edward avrebbe desiderato avere per poter soddisfare i desideri dei suoi clienti: l’argomento perfetto e la risposta più adeguata. Un gioco da ragazzi e un consenso garantito.
Qual è il rischio che corrono intelligenze (umane) poco attrezzate che si cimentano in questa pratica?
Beh, facile: cadere vittima di una immagine di sé che non corrisponde al vero e che desidera (necessita) di essere continuamente alimentata: una belva assetata di sangue (consenso) e bisognosa di nutrirsi della sua stessa essenza (autoreferenzialità).
È la patologia del nostro presente, perché oggi “persone, imprese, nazioni, movimenti politici e perfino i supermercati devono possedere un’immagine che dovrà essere elaborata, amministrata e governata, raggiungendo in tal modo il culmine dell’onnipotenza”. Una prassi quotidiana, una forma di narcisismo virtuale compulsivo (e posticcio) che induce ad agire di conseguenza, tanto che “le azioni pubbliche sembrano motivate solo dal desiderio di ogni individuo di servire la propria immagine” perché “l’uomo pubblico agisce (definitivamente) di comune accordo con la propria immagine”. Così ci raccontava Miguel Benasayag in un famoso saggio, criticando, in realtà, l’onnipresenza dell’immagini del Che, tristemente e completamente sradicato dalla sua storia e dalla sua valenza simbolica originaria.
Insomma, sempre secondo Byung-Chul Han, noto filosofo coreano, il “viscerale desiderio di apparire, la rincorsa al consenso “social” misurato col numero di like e condivisioni, cioè le manifestazioni informatiche di apprezzamento, (…) spesso producono una spirale di gradimento acquistato con la speranza che queste inducano un gradimento guadagnato”. Come dire: una sovrastima dell’importanza conferita alla spirale della popolarità “social” induce a confondere il virtuale col reale… E riserva l’amaro finale di un risveglio traumatico: finisce il sogno (che per molti è un incubo) e ci si ritrova in un mondo nel quale gli altri umani, quelli reali, ti pongono una domanda, anche semplice. E tu non puoi più rispondere, perché ti verrebbe da dire quello che pensi, in modo imperfetto e sincero, ma sai che quelle frasi non corrisponderebbero al tuo profilo “social”, ovvero a quella immagine pubblica che domina la tua propaganda. Così decidi che al posto tuo risponderà la tua immagine: serve alla propaganda; serve al consenso; serve al potere.
È un incubo? Beh, ci assomiglia.
E allora non resta che svegliarci per tempo: che le macchine facciano i loro calcoli precisissimi, noi umani ci teniamo stretta la nostra bellissima imperfezione, spesso fallace ma ancor più spesso decisamente empatica.