di Cosimo Risi del 6/9/2022
Era il 1984, prestavo servizio a Bruxelles, quando Mikhail Sergeyevich apparve sulla scena italiana per le esequie di Enrico Berlinguer. Si sapeva che era un predestinato, avrebbe dovuto diventare Segretario Generale del PCUS dopo Yuri Andropov, gli fu preferito Konstantin Chernenko che di fatto non assolse mai l’incarico perché gravemente malato. A Bruxelles si parlava di quell’astro nascente della nomenklatura sovietica, così insolito per essere appena cinquantenne in un Politburo che premiava la vecchiaia fino alla decrepitezza.
Era il 1985 quando Gorbachev, o Gorby come presero a chiamarlo i media occidentali per ingentilirlo e un po’ involgarirlo, fu eletto Segretario Generale e varò le parole d’ordine di glasnost e perestrojka. Ci affrettammo a tradurle con trasparenza e ristrutturazione, qualcuno azzardò riforma ma sembrò appunto un azzardo che tradiva la linea di continuità nel percorso del comunismo sovietico.
Gorbachev ci mise tutti alla stanga nella provinciale Bruxelles, più capitale del Belgio che dell’Europa. Soltanto nei Duemila infatti, Rue de la Loi sarebbe divenuta la sede definitiva delle istituzioni europee. Prima, nella carta intestata, era definita sede provvisoria.
Mosca voleva il reciproco riconoscimento fra CEE e COMECON, prima gabellava la Comunità da appendice economico-commerciale dell’imperialismo americano, da evitarne persino il nome. Noi ricambiavamo nel ritenere il COMECON l’appendice dello strapotere sovietico sulle Repubbliche satelliti dell’Europa centrale.
Mosca acconsentì al reciproco riconoscimento fra la Repubblica Federale di Germania e la Repubblica Democratica Tedesca ed al conseguente accordo. Fu il temporaneo trionfo della Ostpolitik avviata da Willi Brandt a Bonn. L’accordo sarebbe stato effimero, nessuno prevedeva che la RDT si sarebbe presto sciolta nella RFG.
A Bruxelles qualsiasi iniziativa politica si traduceva, e tuttora si traduce, nella creazione di gruppi di lavoro. Qualsiasi tema va multilateralizzato, il luogo elettivo è la riunione degli stati membri, con la Commissione, in seno al Consiglio. La procedura sempre e comunque: il gruppo riferisce al Coreper (Comitato dei Rappresentanti Permanenti, gli Ambasciatori), che a sua volta riferisce al Consiglio Esteri ed eventualmente al Consiglio europeo. All’epoca il Consiglio europeo, non ancora istituzionalizzato, si riuniva una volta a semestre nel paese della presidenza di turno del Consiglio.
I lavori nei gruppi procedevano ad una rapidità inusuale. Dopo anni di blocco negoziale e di mutuo disconoscimento, avevamo fretta di svoltare pagina.
Deflagrò l’idea di Gorbachev della Casa Comune Europea. Fece da pendant all’idea di Mitterrand, in qualche misura riecheggiata da Jacques Delors, di combinare Confederazione e Federazione. Alla Confederazione avrebbero partecipato tutti i paesi europei, da Ovest a Est: il cerchio largo. Alla Federazione gli stati membri della Comunità: il cerchio stretto.
Le due organizzazioni avrebbero interagito pacificamente e con spirito costruttivo. La guerra non era più una prospettiva, ma il triste retaggio del passato, del Secolo Breve che entrava nella fase finale.
Fu altro lavoro per i brussellesi, stavolta di ordine politico generale e perciò di maggiore fascino. Nessun tema quanto l’istituzionale eccita le intelligenze dei diplomatici e degli addetti ai lavori nel circolo ristretto dei “comunitari”. Mettevamo finalmente a frutto gli studi sulle sacre scritture di Altiero Spinelli e Jean Monnet, sul dilemma fra il federalismo del primo e il funzionalismo del secondo, ora da assortire con vodka e caviale, i simboli russi nel mondo.
Da allora agli studenti universitari ho consigliato fra i testi La Casa Russia di John Le Carrè, il cantore britannico della Guerra Fredda e della sua incerta fine. Le Carrè infatti non dava eccessivo credito all’evoluzione socialdemocratica del comunismo. Era un conservatore, dicevamo, non ancora il progressista dei Duemila.
Nell’agosto 1991, mentre le istituzioni comunitarie erano in vacanza, di turno sempre a Bruxelles, con i primi incerti cellulari non ancora smart, lavorai con i colleghi delle altre Rappresentanze a diramare alle capitali la notizia del tentato golpe ai danni di Gorbachev, divenuto nel frattempo anche Presidente dell’URSS. Ci voleva una risposta europea al colpo di mano. Solo il Consiglio europeo poteva darla ad adeguato livello. Andava convocato in via straordinaria a Bruxelles, la sola sede accessibile in estate. I messaggi si intrecciarono convulsi, non tutte le delegazioni erano convinte dell’opportunità di fare convergere i Capi a Bruxelles per un affare interno sovietico.
Il golpe si sgonfiò per l’insipienza dei golpisti e la resistenza di Gorbachev. Questi rientrò a Mosca: non trionfante ma visibilmente colpito. Non dalla malattia che maliziosamente gli oppositori gli imputavano per dichiararlo incapace di comandare, ma per la concorrenza di Boris Eltsin, il Presidente di Russia. Di lì a poco, complici i Presidenti di Bielorussia e Ucraina, Eltsin dichiarò la dissoluzione dell’URSS e la creazione della Comunità Stati Indipendenti.
La parabola politica di Mikhail Sergeyevich Gorbachev si chiuse il Natale 1991. La bandiera rossa fu ammainata, al suo posto fu issata quella di Russia. Nel 2022 il suo indiretto successore al Cremlino ne ha liquidato l’eredità morale: la rinuncia alla guerra nelle relazioni internazionali. Gorbachev, dal ricovero in ospedale, non ha potuto commentare.