di Stefano Pizzin del 4/9/2022
Nella casa goriziana di Demetrio Volcic c’è una foto, è stata fatta in un aeroplano, anzi, nel volo di Stato dell’Aeroflot che portava l’allora segretario del PCUS Michail Gorbaciov in qualche visita ufficiale. Ci sono, seduti vicini, Gorbaciov, Volcic che lo sta intervistando la moglie del presidente sovietico Raissa che, come sempre, lo accompagnava nei suoi viaggi.
Ciò che stupisce è l’informalità del contesto, la familiarità di Gorbaciov con i giornalisti e con i media. Una posa da leader occidentale, abituato a rispondere a una stampa libera che incalza con domande che possono mettere in difficoltà. Uno stile lontano anni luce dalla classica iconografia dei capi sovietici, fermi, inaccessibili, buoni solo a fare solo dei discorsi ufficiali senza l’assillo delle domande dei cronisti. Ed è pure lontanissima dall’immagine di Putin, uomo che viene dal mondo delle spie, chiuso in un bunker e attorniato da collaboratori più sembrano più impauriti che convinti dalle opinioni del loro capo. Un funzionario dei servizi che accetta di confrontarsi con la folla solo se la stessa è già ben irrigimentata e addestrata ad applaudire.
Era questo stile, questo modo di intendere il potere, che ci piaceva di Gorbaciov; ma modo di essere e di presentarsi non era concepibile per i russi. Un popolo abituato, con gli zar prima e con i capi del partito poi, a percepire il potere come un luogo distante, fatto di figure inaccessibili, attorniate da patriarchi e generali, autocrati buoni per le parate o per quelle riunioni notturne dove, come raccontava uno di loro Nikita Krusciov: “sapevi quando entravi ma non sapevi come ne saresti uscito”. Il capo per i russi deve essere un padre severo, uno che non ti dà nuovi spazi di libertà come fece Gorbaciov ma ti garantisce pane e sicurezza in cambio dell’obbedienza. Un capo che ti tiene in gabbia ma ti consola facendoti credere di essere parte di un impero. Sta qui, nel differente modo di cogliere e interpretare il potere, la differenza è l’incomprensione tra Gorbaciov e i russi.
Certo, ci furono enormi errori di valutazione dal parte del capo del Cremlino e l’Occidente al di là dei riconoscimenti di facciata poco fece per aiutarlo. Solo i tedeschi finanziarono sostanziosamente l’agonizzante economia sovietica ma lo fecero in cambio del raggiungimento del loro obiettivo storico dell’unificazione. Troppo forte all’epoca era il vento liberista che spirava da Washington e Londra e un Gorbaciov che fosse riuscito a coniugare socialismo e democrazia, prosperità e giustizia sociale, era inaccettabile per che pensava che il mercato, la competizione economica sfrenata, fosse l’unico modello di vita possibile. Margareth Thatcher amava dire che al mercato, alla giungla sociale “non c’è alternativa” e Gorbaciov rappresentava proprio quell’alternativa. Gran parte delle cause fallimento del suo generoso tentativo stanno tutte dentro l’anima della Russia, nella sua storia e nella sua cultura. Già Lenin faticò molto a giustificare una rivoluzione proletaria dove lo stesso Marx non l’avrebbe mai pensata e, messo da parte il sogno della rivoluzione mondiale, il “socialismo in un solo Paese” teorizzato da Stalin si mostrò come un regime simile alle autarchie precedenti l’ottobre del ‘17, dove erano stati cambiati i simboli ma la sostanza era rimasta stessa.
Gorbaciov offrì ai russi la libertà ma nessuno sa che farsene se i negozi sono vuoti; garantì ai diversi popoli dell’Impero sovietico la democrazia ma, non sapendola maneggiare, la trasformarono presto in nazionalismo. Fu uno di quelli che Machiavelli chiamo i “profeti disarmati” amati per un breve periodo e poi disprezzati. Da idealista, da illuminista, confidava nella ragione ma sottostimava le pulsioni più profonde dell’individuo, pensava al futuro ma non pesò nel modo giusto il fardello del passato, come quei vecchi socialisti utopisti confidò troppo nella bontà dell’uomo.
Oggi i russi non possono criticare il loro presidente, il rischio va da qualche giorno in galera o di vedersi offrire un tè al plutonio. Possono però criticare quello che gli consentì, per la prima volta, di esprimersi liberamente. In fondo è questo l’ultimo lascito di Michail Sergeevič al suo popolo.
Così, mentre ricordo l’uomo che impersonò l’ultima delle illusioni, seguo le imprese da macellaio del piccolo agente del KGB che lo ha sostituito, e mi torna in mente quella foto in casa Volcic, testimonianza di cosa avrebbe potuto essere il futuro ma non è mai stato.