di Andrea Bellavite del 186/2022
C’è stata da poco la Festa della Repubblica e in molti Comuni è stata consegnata ai neo-diciottenni la Costituzione.
Ovunque è stato sottolineato il fatto che non si celebra soltanto genericamente la “Repubblica”, ma proprio questa specifica Repubblica, democratica, fondata sul lavoro, con la sovranità che appartiene al popolo.
Ovunque si è assistito a un fenomeno preoccupante, all’invito dei sindaci hanno risposto sempre meno del 50% dei giovani invitati. Il dato corrisponde a quello della disaffezione generale degli adulti al voto, anche a livello locale, quasi a sottolineare una mancanza di partecipazione che non può essere attribuita soltanto all’indolenza, alla pigrizia e alla mancanza di volontà.
E’ come se venissero alla luce le carenze del Sistema, esistenti da sempre ma acuite negli ultimi trenta anni, dopo il periodo della cosiddetta “caduta dei muri” o della de-ideologizzazione della Politica.
La democrazia riconosce la pluralità di opzioni e visioni del mondo presenti in una determinata società. La Costituzione prevede una duplice forma di esercizio della sovranità del popolo. Da una parte ogni cittadino è in quanto tale un “politico”, chiamato a contribuire con le proprie competenze e capacità alla crescita dell’intero organismo sociale. Dall’altra parte ha il diritto – un tempo si diceva anche il dovere – di scegliere attraverso il voto i propri rappresentanti, in Parlamento, nei Consigli regionali, nelle assise comunali.
Il presupposto che garantisce il funzionamento del meccanismo è l’esistenza di soggetti di base complessi in grado di riunire persone che si riconoscono in parte o in toto in una determinata concezione del mondo e la possibilità di individuare ottimi rappresentanti, non incentrati sui propri interessi ma sul servizio al bene comune dell’intera collettività.
Nei luoghi della rappresentanza, le diverse idee vengono sviscerate e confrontate, allo scopo di rendere possibile l’importantissima azione del legiferare. Il vivere civile è determinato dalle regole costruite attraverso l’equilibrio e la ricerca di accordo tra le diverse realtà presenti.
Tutto ciò ha funzionato discretamente fino a quando l’elettore era chiamato a scegliere i propri preferiti all’interno di partiti che dichiaravano esplicitamente la loro appartenenza o vicinanza ideale. Ci si poteva riconoscere in una democrazia ispirata ai valori della cristianità o del comunismo, del liberalismo o del socialismo, del neofascismo “sociale” e così via. Chi veniva eletto portava con sé la forza di milioni di sostenitori e sedeva a testa alta nelle assemblee mondiali.
Negli ultimi decenni tutto è cambiato. Il potere dei Parlamenti nazionali si è molto assottigliato, a favore dello strapotere delle multinazionali, i partiti hanno perso anche nel nome la loro connotazione ideale o ideologica, è cresciuta una situazione di tensione e di paura che è diventata il vero ago della bilancia, il criterio delle scelte elettorali. Si tende a cercare l’uomo o la donna forte, in grado di traghettare lo Stato oltre le tempeste pandemiche e belliche. La ricerca del consenso viene determinata in modo sempre più invasivo da un’informazione per lo più asservita alla logica del più forte.
Soprattutto, che cosa rappresenta un parlamentare di “Forza Italia”? Quale idea alla base di tale partito? Chi non si sente “fratello d’Italia”? O Democratico? Che cosa significa votare da una parte piuttosto che da un’altra, se poi non solo gli aspetti nominativi ma anche quelli fondamentali vengono messi in discussione, come evidente in questo periodo di tragica sofferenza del popolo ucraino e di triste impotenza della diplomazia mondiale?
Non è di sicuro l’unico problema della democrazia, di certo però non è difficile individuare un rapporto con la disaffezione alla Costituzione, al voto e alla partecipazione.
Perché impegnarsi tanto, se poi le decisioni più importanti per il futuro del mondo sono prese in tutt’altre stanze che in quelle della democrazia rappresentativa? Perché andare a votare, se non ci si sente rappresentati da nessuno e i gruppi politici sembrano più consigli di amministrazione aziendale che luoghi di riflessione, valorizzazione ed edificazione del bene comune? Certo, sono domande in parte inquietanti perché potrebbero preludere a tentazioni eversive, c’è chi preconizza l’instaurazione di un sistema alternativo, con metodi di scelta della classe dirigente più adeguati rispetto a quelli attuali. E c’è chi pronuncia già il de profundis alla democrazia, pensando ad anacronistici governi dei migliori o dei filosofi, capaci di coordinare la vita di milioni di persone.
Quale soluzione per invertire il trend? Come ritrovare il bandolo della matassa? Una strada possibile potrebbe essere quella della rivalutazione del pensiero condiviso. Purtroppo le grandi trasformazioni sociali del XX secolo hanno provocato sospetto e diffidenza nei confronti delle ideologie umanistiche dell’’800, così come è evidente il tracollo del cristianesimo cattolico che, nonostante il Concilio Vaticano II e il succedersi di ottimi pontefici, sembra aver perso quasi del tutto l’appeal nei confronti della realtà popolare. In questo crepuscolo dell’assolutismo Medioevo e aurora del relativismo moderno e post moderno è indispensabile trovare urgentemente una mediazione. Occorre costruire un tavolo di dialogo da collocare sul ponte che unisce (o divide) l’imperturbabile fissità del castello inespugnabile ma ormai vuoto della Logica, dell’Estetica, dell’Etica dall’inquieto incessante scorrere di un’umanità priva di riferimenti e disperatamente aggrappata a una libertà senza volto e senza nome.
In altre parole, solo un pensiero confrontato e condiviso, potrà ricostruire una Politica rispettosamente etica e una Bellezza realmente estetica.