di Anna Cecchini del 7/5/2022
Night walking tra due città Tra la Castagnevizza e il Castello
Mando giù una pasta al pomodoro e qualche foglia d’insalata. Infilo le mie vecchie scarpe da trekking e un windstopper. Basterà, anche se la serata è fredda. Ho fretta di andare, ho un appuntamento importante.
Esco nell’ora in cui le serrande si abbassano con clangore di metallo. Esco nell’ora in cui il traffico si addensa e ai semafori si formano piccole code di utilitarie: impiegati che sbadigliano, commesse esauste e impazienti. Non vedono l’ora di levarsi il trucco e le scarpe col tacco, morirebbero per un pediluvio e un massaggio ai piedi. E invece saranno ancora un paio d’ore di cene rimediate, controlli frettolosi a quaderni e cartelle, piatti infilati in lavastoviglie, posticipando a dismisura il momento di infilarsi sotto la doccia o di planare sul divano davanti a un bagliore azzurrino.
Esco stasera e non un’altra sera perchè un appuntamento importante. Esco di casa a piedi, da sola. Attraverso la città mentre i bar si animano per l’aperitivo serale. Guardo verso l’alto, come ho imparato a fare per riscoprire le linee verticali degli edifici, le linde decorate, i balconi, i fregi e marcapiani, le travature delle mansarde e gli abbaini. Guardando in alto vedi una città diversa. Anche di notte la città è diversa. Guardo il cielo nero, ma lei non c’è.
Piazza Vittoria si spalanca in una solitudine un po’ spettrale. Guardo il Castello illuminato e so che è lì che arriverò tra un’oretta, dopo un po’ di saliscendi.
Lei non c’è, neanche qui, dove c’è più cielo che nel resto della città. Ancora portoni barocchi e fregi elaborati prima di arrivare in via Cappella, che invece è salita di acciottolato, quello fatto per le carrozze e che fa male ai piedi, ai margini della città. “Strada senza uscita”, dice il cartello. “Attenzione. Confine di stato” recita il successivo.
La strada e una città terminano qui.
Un tunnel nero di vegetazione m’inghiotte, bosco fitto di alloro e fruscio di foglie. Pochi metri soltanto e il Monte Santo è un presepe sospeso nel nulla. Ancora pochi passi circospetti e la città ricomincia, ma è un’altra città, un altro Paese, un’altra lingua. Il bosco si dirada e finalmente compare il monastero francescano di Kostanjevica.
E lei non c’è, neanche qua.
Mi siedo su una panchina, il respiro un po’ affrettato. Non fa freddo, apro la giacca. I Borboni dormono, nella loro cripta gelida, dopo il lungo e doloroso esilio goriziano. Il monastero custodisce silenzioso il suo roseto straordinario e antichi incunaboli. Veniteci di giorno, quassù. Veniteci in maggio, ad annusare una collezione di rose Bourbon tra le più vaste d’Europa. Potete venirci sempre: ogni stagione ha il suo fascino, perfino se piove, anche in una fredda notte di dicembre di plenilunio, come stasera, quanto lei non si fa vedere, nascosta dalle nubi.
A est s’intravede appena Villa Lasciac col suo profilo moresco, progettata nei primi del ‘900 dall’omonimo architetto quale sua dimora. Non ci abitò mai. Destinata a casa di cura negli anni ’80, versa oggi in stato di abbandono, in attesa di qualche cospicuo finanziamento e di un convincente bussinesplan che le rendano una nuova vita. Andate a cercare il suo meraviglioso portale in legno che ne segna l’accesso, magari di giorno. Io ne ero ossessionata. Ma il robusto recinto che circonda il parco e il portone irrimediabilmente chiuso mi avevano quasi costretto alla resa. Non avevo fatto la cosa più semplice: bussare alla porta del vicino e chiedere come accedere. “Per di qua” sorrise l’anziano signore sloveno, e mi aprì la porta del pollaio, consegnandomi il viatico per la casa dei miei sogni.
La discesa è verso la Val di Rose, Rosenthal, Rozna Dolina, tra frutteti e fili di fumo, con il luccicare delle due città gemelle che si confondono. Traffico che sfuma e abbaiare di cani. Un runner sale sbuffando. “Dobro vecer” ansima lui. “Dobro vecer” rispondo nella lingua dei miei nonni. Edifici curati, rosai, qualcuno che porta a passo il cane. Di nuovo città, finestre illuminate, bagliori di telegiornali. Binari di ferrovia e il vecchio valico di Rafut, testimone ormai innocuo di un brutale colpo di scure che spaccò in due la città, settant’anni fa. Un altro Paese, un’altra città, un’altra lingua, ma niente confini, oramai.
Poche centinaia di metri e sono ai piedi del Castello. Lei ha deciso di mostrarsi, ora, un disco pallido e lattiginoso tra nubi compatte, insufficiente a mostrare la via. Il parco che sale al colle è un tappeto di foglie secche e cupe silhouette di acacie spoglie. Buio pesto, di nuovo. Un brivido leggero: anche nei boschi cittadini, di notte si cela il babau. Ma è solo l’inquietudine dell’invisibile e il sommesso respiro di fauna selvatica che immagino a ogni passo. Perdo il sentiero un paio di volte. Qua dietro c’è un antico castagneto, ora racchiuso gelosamente in una proprietà privata, l’unico superstite nel territorio cittadino.
Arrivo sotto le mura, salgo la scala di metallo, torno nel mondo visibile. Il borgo, gli edifici medievali e un’altra città di nuovo ai miei piedi. E poi Piazza Cavour, via Rastello, Carlo Michelstaedter col cappello in mano. Osterie ancora gremite, risate, studenti che passeggiano in gruppetti, gli ultimi aperitivi dei tiratardi.
Sono a casa, dopo solo un paio d’ore di cammino buio e solitario, attraverso due città e boschi misteriosi in pieno centro, naso freddo e respiro veloce. Metto la chiave nella toppa, entro e la stufa scalda ancora, la brace aspetta solo un ciocco. Si alzano le faville.
Postfazione
Dopo alcuni anni da questo scritto, sono cambiate molte cose.
I cartelli arrugginiti che segnavano ancora il confine di Stato sono spariti, forse finiti nella soffitta di qualcuno che ha voluto portarsi a casa il souvenir di un confine durato tanti, troppi anni, quel passaggio nel bosco che conserva ancora il risuonare dei passi dei graniciari o di coloro che lo hanno attraversato con un brivido dopo un cammino di migliaia di chilometri che li portava in salvo, in Occidente.
La pandemia lo ha rialzato, quel confine, separando di nuovo le nostre comunità e ho saputo che in quei mesi incredibili sempre da lì passavano di nascosto due ragazzini di una coppia separata che non potevano più vedere il loro padre perché aveva il torto di risiedere in Slovenia e lo incontravano come clandestini nel buio dei cespugli d’alloro.
Nova Gorica e Gorizia sono diventate assieme la prima capitale europea della cultura transfrontaliera e questo sentiero diventerà una rotta privilegiata per i passi di chi vorrà ascoltare la Storia di un territorio che ha sofferto, che cambiato così tante divise, monete e bandiere in appena un secolo e che ha rischiato di smarrirsi. Potremo finalmente raccontare all’Europa la nostra sostanza, fatta di cicatrici che possono guarire.
E sarà bello farlo anche a piedi, calpestando sentieri percorsi da altri e per altre ragioni, e provare a comprenderle.