di Stefano Pizzin del 22/12/2021
Con la vittoria di Gabriel Boric alle elezioni presidenziali il Cile ha chiuso definitivamente con la stagione di Pinochet e, forse, anche con quella di Allende
In Spagna la transizione alla piena democrazia è durata dalla morte di Francisco Franco, nel novembre del 1975, alla vittoria dei socialisti alle elezioni dell’ottobre del 1982. Poco meno di sette anni. In Cile la transizione è durata più di trent’anni.
Il 5 ottobre 1988 i cileni furono chiamati a confermare la nuova Costituzione voluta da Pinochet che lo avrebbe tenuto al potere ancora per un mandato. Contro ogni previsione vinsero i no e il regime militare si trovò a trattare il passaggio alla democrazia con i vecchi partiti che erano stati travolti dal golpe del 1973.
È bene fare un passo indietro: quando i militari guidati da Augusto Pinochet, il generale al quale in modo improvvido Salvador Allende diede in mano l’esercito credendolo il più fedele tra i gli uomini in divisa, soppressero la democrazia, facendo dello stadio nazionale un mattatoio e dando la caccia a ogni oppositore, il Cile era un’anomalia nel mondo sudamericano. Il Paese, una lunga striscia di terra che si snoda dagli aridi deserti del nord fino a guardare in faccia l’Antartide, è stato un esempio di stabilità politica e democrazia, e godeva di un certo benessere economico che lo faceva, assieme all’Uruguay, il più ricco dell’America Latina.
A contendersi il potere erano il Partito socialista e la democrazia Cristiana e, naturalmente, vivendo nel mondo della guerra fredda, la mano di Washington si faceva sentire. Quando Allende vince le elezioni con il Fronte Popolare, tenendo insieme una alleanza dai radicali ai comunisti, si trova a pestare i piedi all’elité economica e militare della nazione che, come sempre accade in Sudamerica, è particolarmente tenace e aggressiva nel non volere mollare il potere e i privilegi. Le ambiguità della Democrazia cristiana, le ingenuità di Allende, la stupida interferenza di Castro che per un mese gira per il Cile tenendo comizi infuocati, oltre al terrore degli Stati Uniti di perdere un pezzo di quello che considerano il loro “giardino di casa”, mettono in moto il golpe. In pochi giorni il governo è rovesciato, Allende ucciso, e la dittatura instaurata.
Siamo negli anni della guerra fredda, Washington e Mosca fanno la voce grossa ma poi trovano un accordo: un pezzo a me e uno a te. Gli americani cominciano e perdere nel sud est asiatico e i sovietici si accontentano di avere solo Cuba dall’altra parte del mondo. Il leader dei comunisti cileni, Luis Corvalán, viene scambiato con una spia americana, chi può scappa dal Cile, e il sipario scende.
Negli anni della dittatura, i generali a Santiago si mostrano sanguinari come i colleghi del resto del continente, ma politicamente più scaltri di quelli di quelli di Buenos Aires o di Brasilia. Il pinochettismo non è solo un modo autoritario di tenere il potere, è un sistema economico e sociale. Santiago diventa la mecca dei teorici del liberismo, i discepoli di Milton Freidman arrivano direttamente da Chicago a sperimentare le loro bislacche teorie economiche. Per Reagan e la Thatcher il generale Pinochet è un modello economico e poco importa se continua a torturare e imprigionare gli oppositori. Nel paradiso del “capitalismo reale” tutto viene privatizzato: scuola, sanità, previdenza, trasporti, non c’è ambito della vita cilena che non venga lasciato alla “mano invisibile del mercato”, mentre a chi non è d’accordo ci pensa la mano visibile dei carabineros.
Dopo la sconfitta del referendum si apre una laboriosa stagione di trattative per portare il Paese alla piena democrazia. Il militari ottengono molto: la quasi impunità, per prima quella dello stesso Pinochet che morirà a Londra protetto dai britannici ai quali non negò il sostegno contro i “colleghi” argentini nella guerra delle Falkland, il mantenimento di molti meccanismi istituzionali del passato regime ma, soprattutto, un sistema economico largamente privatizzato.
Dal 1990 al 2010 si susseguono alla presidenza Patricio Aylwin, Eduardo Frei, Ricardo Lagos e Michelle Bachelet, tutti democristiani e socialisti, uniti nella Concertación, una coalizione di forze politiche di centrosinistra. Ma se Lula in Brasile, Kirchner in Argentina, Muijca in Uruguay avviano profonde riforme economiche, puntando sulla redistribuzione delle ricchezze, i progressisti cileni sono più timidi. Smantellare l’impianto liberista dell’economia è difficile, troppi e molto forti sono gli interessi interni ed esterni che vi si oppongono. A partire dal 2010 la Concertación si alterna al potere con la destra ripulita dal pinochettismo che per due volte vince le elezioni presidenziali con Sebastián Pinera.
È negli anni dell’ultimo mandato di Pinera che maturano le condizioni per la svolta che ha portato, alcuni giorni fa, all’elezione di Gabriel Boric. Pinera è uno scaltro, ministro del lavoro con Pinochet, grande amico dei Chicago boys, mollò il generale nel referendum dell’88 votando no, e guidando in seguito la ricostruzione della destra. Moderato come i suoi avversari del centrosinistra, dopo una parentesi con la Bachelet, viene rieletto presidente nel 2017.
Come una valanga comincia da una piccola palla di neve, così la grande svolta del Cile comincia da un provvedimento secondario: l’aumento del prezzo dei biglietti della metropolitana di Santiago. Quegli aumenti fecero saltare il tappo dell’ esasperazione sociale; la sistematica privatizzazione dell’economia e l’esiguità delle politiche sociali avevano sempre più ampliato il divario tra le diverse fasce sociali, colpendo in particolare i giovani. Sono loro, per primi, a scendere in piazza. Le proteste si fanno sempre più intense finché, il 20 ottobre del 2019, Pinera manda l’esercito e impone il coprifuoco per sedare le proteste. È la svolta: in un pezzo rilevante della società matura la consapevolezza che sono necessarie riforme radicali, l’epoca della dittatura militare non è ancora superata e, soprattutto, il vecchio centrosinistra non è più adeguato. Il più tangibile risultato di quelle proteste è il plebiscito del 25 ottobre 2020, quando una schiacciante maggioranza di cileni dichiara di volere una nuova Costituzione redatta da una Assemblea costituente. Il 15 e 16 maggio del 2021 si tengono le elezioni per l’Assemblea costituente che dovrà scrivere la nuova Costituzione. Dalle urne esce un’Assemblea frammentata, con una maggioranza di forze di sinistra guidate non più dalla vecchia Concertacìon ma da una coalizione, Apruebo dignitad, composta dai comunisti e altre formazioni radicali. In questa alleanza e nelle lotte studentesche nasce politicamente Gabriel Boric.
Le elezioni presidenziali di dicembre maturano in questo quadro, con un fronte di sinistra dove sono saltate le vecchie gerarchie e il blocco che ruotava intorno al Partito socialista e la Democrazia cristiana ha dovuto cedere il passo a nuove formazioni più radicali. La candidatura di Boric nasce all’insegna della trasformazione radicale e del superamento dell’impianto liberista dell’economia cilena. Batte alle primarie della coalizione il candidato ufficiale del Partito comunista Daniel Jadue e si piazza al secondo posto al primo turno elettorale, raggiungendo il ballottaggio, dal quale, per la prima volta dal ritorno alla democrazia, la candidata della Contertácion, la democristiana Yasna Provoste, viene esclusa.
Se il campo del centrosinistra si è profondamente modificato, il primo turno delle elezioni presidenziali terremota anche quello del centrodestra. L’erede di Pinera, Sebastián Sichel, viene sonoramente battuto, mentre si afferma il candidato dell’ultradestra José Antonio Kast.
Kast è una specie di Bolsonaro con il turbo. Figlio di un militare della Wehrmacht iscritto al partito nazista, fratello di un ministro di Pinochet, le sue idee sono un frullato di tutto l’estremismo di destra: fossati contro gli immigrati e frontiere chiuse, cancellazione del diritto all’aborto, mano libera alla polizia, amnistia per chi si è macchiato di delitti negli anni della dittatura, nazionalismo e omofobia. In economia privatizzazioni a tutto spiano in un Paese dove di pubblico è rimasto poco o nulla.
Il resto è storia di queste ore con la vittoria di Boric. Voglia di novità, un avversario troppo estremista, i problemi strutturali del Cile sempre più impellenti, forse il pendolo politico del Sudamerica che si sta rispostando a sinistra, dopo Argentina e Perù (vedremo che succederà il prossimo ottobre in Brasile), i motivi per la vittoria di Boric possono essere tanti. Di sicuro per il Cile saranno anni complessi, con una parte del Paese decisa a chiudere in modo definitivo con la stagione dei militari e un’altra ad averne nostalgia. Una nazione radicalmente divisa, alla ricerca di una nuova unità, ma dove, al tempo stesso, le politiche dei piccoli passi, delle riforme parziali, si sono rivelate inadeguate davanti alle grandi trasformazioni accelerate dalla crisi economica del 2008 e dalla pandemia.
Uno dei primi atti di Boric dopo l’elezione è stato l’omaggio al busto di Salvador Allende al palazzo della Moneda. Un modo per chiudere con la stagione di Pinochet rendendo omaggio a chi dai generali venne ucciso. Un modo, forse, anche per aprire una stagione radicalmente nuova.
Staremo a vedere. Di sicuro, un’altra volta, il Cile sarà un laboratorio per tutta l’America Latina.