La guerra, l’invasione della Jugoslavia e il bisogno di superare un passato che ancora pesa
di Marzio Lamberti del 20/5/2021
10 giugno 1940. Quel giorno, 81 anni fa, l’Italia dichiarava guerra a Francia e Inghilterra e poi a seguire all’Urss, alla Jugoslavia, agli Stati uniti e a tanti altri. Un folle al comando e tanti altri a seguirlo. Fu l’inizio di una tragedia nazionale: più di 450 mila morti, città distrutte, danni materiali enormi, incalcolabile lo scempio di tante famiglie distrutte. Di tutto questo oggi resta il ricordo, il dolore sempre più lontano, ma deve restare soprattutto I’ammonimento.
La tragedia particolare di Gorizia iniziò invece il 6 aprile 1941 quando l’Esercito invase la Yugoslavia partendo in buona parte proprio dalla nostra città trasformata nel ventennio in base per la conquista dei Balcani. I territori occupati furono messi a ferro e fuoco. Con tutte le conseguenze che ne seguirono. La Slovenia con 350 mila abitanti, fu denominata provincia di Lubiana e incorporata il 23 maggio 1941 al Regno d’Italia.Per 29 mesi vennero così a trovarsi nello stato italiano circa 750.000 sloveni, ossia quasi la metà dell’intera nazione Nell’estate del ’41, dopo l’attacco di Hitler all’Unione Sovietica, si costituirono le prime unità armate che si aggregarono alle forze della resistenza jugoslave. La repressione delle forze armate italiane fu durissima: 20.000 sloveni furono deportati nei campi di concentramento ad Arbe, Monigo, Gonars dove morirono in migliaia di stenti. Altre migliaia morirono in battaglia o fucilati, decine e decine i villaggi bruciati e saccheggiati dai militari italiani. La Slovenia fu trattata come preda di guerra... “Sono alcune delle pagine più oscure della nostra storia nazionale, così oscure che per molto tempo in Italia quasi nessuno le ha volute leggere. È comprensibile, perché a pochi piace far la parte del malvagio, specie se questo incrina un po’ uno dei miti sui quali si fonda la nostra identità collettiva. Ma se un’identità è matura, non ha paura del buio. E allora, anche i passi difficili, anche il riconoscimento, l’assunzione di responsabilità, ed anche la vergogna, possono aiutare a crescere verso una cittadinanza comune europea”. Come scrive lo storico Raoul Pupo.
Gorizia fu una delle principali vittime dell’avventura fascista e di ciò che successe in Yugoslavia. Perse la sua provincia, quasi la sua ragion d’essere ed ebbe il confine, che interrompe legami, amicizie, parentele, rapporti. Gorizia pagò duramente: i civili uccisi dai bombardieri alleati, i giovani mandati a morire su tanti fronti, partigiani caduti dentro e attorno alla città, i deportati nei lager nazisti, lo sterminio della comunità ebraica e infine i deportati in Yugoslavia.
Tanti, troppi morti, migliaia. E la città si divide, si spacca, non comunica tra le sue parti. Dilaniata da odi e da sospetti terribili. Una spaccatura che passa attraverso tutto, tra le famiglie, tra italiani e sloveni, tra i partiti, tra i sindacati, nella vita di tutto e di tutti. E poi l’arrivo degli esuli con il loro dolore e il peso di rabbia e rancore. E ciascuna parte ricorda i propri morti, crea i propri monumenti. In periferia i monumenti ai partigiani. Nel cuore della città quello ai deportati in Yugoslavia. Davanti ala Stazione quello ai deportati nei lager nazisti.
Morti divisi, come i vivi. Su tutto questo c’è anche chi ha costruito un proprio ruolo e funzione e fortune politiche Altri hanno pagato duramente con l’emarginazione, ma non solo. Questo per decenni è stato il clima della città, la conseguenza più tragica di quelìa guerra. E che ha segnato le vicende dei goriziani, la cultura e la storia della città, i rapporti tra noi tutti. E in maniera indelebile e terribile sulle generazioni che hanno vissuto direttamente quegli avvenimenti e i loro figli.
Non si può dimenticare non si deve. La storia non si cancella, c’è stata. Ma bisogna guardare avanti. Per una parte della città quegli avvenimenti sono del tutto ignorati e/o rimossi. Quindi per quella parte non serve una riflessione. Ma un’altra parte della città ha voluto superare quel clima e ha lavorato con intelligenza per creare i crismi di una nuova convivenza tra le parti che la compongono e nuovi rapporti con i vicini di Nova Gorica fino a parlare di Città comune e di Capitale europea della cultura. E soprattutto i giovani e quelli che oggi hanno 20-30 anni e per i quali quegli avvenimenti sono lontani, sempre più lontani Oggi si parla dell’Europa, di casa comune, di ottant’anni di pace garantiti dall’Unione Europea mai verificatisi nel mostro continente, del superamento delle basi oggettive e soggettive che hanno creato i presupposti di quella tragedia e di ciò che ne è seguito. Sono beni preziosi, conquiste faticose: la democrazia, il rispetto e l’amicizia tra comunità diverse, il superamento del razzismo e delle politiche di aggressione verso gli altri.
Conquiste definitive? Non ne siamo sicuri. Ogni tanto, qui da noi ma non solo, emergono dal passato parole e simboli, che fanno tornare indietro, che ci ributtano a ottanta anni fa. Sono presenti tra noi. Rispuntano. Anche ad opera di chi rappresenta le istituzioni: gli onori alla X Mas in Municipio, gli abbracci a CasaPound al Parco della Rimembranza, i confini da ripristinare, gli echi sovranisti, i simboli nazisti che appaiono sui muri, l’antisemitismo, chi esce dall’aula del Consiglio comunale quando un consigliere sloveno saluta nella sua lingua ecc. Ad una parte della città quella tragedia di ottanta anni fa sembra non aver insegnato niente. Tutto è stato rimosso e quindi non esiste. Quel non volere fare i conti con la storia fino in fondo evidenzia ignoranza ma anche accondiscendenza perché si sentono in continuità e molto vicini a chi ha causato quelle macerie. Che è cosa gravissima. Ma una parte della città non è così.
Resta più che mai la necessità che Gorizia si liberi di quel passato per lasciare alle nuove generazioni menti libere. Per quelli che sono ancora giovani, studenti, e per quelli che verranno. Che è un loro diritto. Giovani che hanno diritto ad un nuovo inizio. Il loro inizio. Le menti sgombre e aperte. Non ostacolate dai tormenti delle generazioni che stanno passando la mano. Ma senza dimenticare.