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I miei anni nel PCI Ricordi e riflessioni

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Intervista a Paolo Polli a cura di Stefano Pizzin del 12/02/2021

Paolo Polli, iscritto alla FGCI dall’ottobre del 1972, dopo un’esperienza formativa nella sinistra socialista lombardiana, ne è stato segretario provinciale dalla fine del ’73, fino all’ingresso in consiglio comunale e poi in giunta nel 1975 come Assessore alle attività culturali, ricreative e del tempo libero. Rieletto in consiglio comunale nel 1978, è stato anche consigliere provinciale.

Tra i fondatori della Libreria Rinascita, non ha poi più avuto incarichi di Partito né elettivi, impegnandosi esclusivamente nell’attività lavorativa professionale; nel 1997, è stato chiamato in Azienda Provinciale Trasporti di cui è stato prima Consigliere delegato e poi Presidente e Amministratore Delegato.

Ha sempre lavorato in aziende di trasporto e logistica, dedicandosi, inoltre, all’attività di divulgatore e promotore culturale. Negli ultimi hanno è stato tra i fondatori di iniziative come Il libro delle 18.03 e dell’associazione culturale Apertamente.

Polli, ti sei iscritto alla FGCI nel 1972, venendo da una cultura legata alla sinistra socialista. Erano anni di grandi passioni politiche e ideali, perché hai scelto il Partito comunista?

Mi sembrò una scelta naturale per quanto il Pci allora rappresentava: la volontà di una società più equa, la difesa dei diritti dei lavoratori e delle classi più deboli, la difesa delle conquiste democratiche nate dalla Resistenza, di cui era ancora molto vivo il ricordo, l’attenzione verso le lotte per la democrazia a livello internazionale, come Il Vietnam e la segregazione razziale. Inoltre il partito era un luogo strutturato e organizzato dove riunirsi, discutere, condividere, crescere, anche studiando nelle strutture che allora esistevano a livello nazionale per formare i quadri dirigenti. Si trattava di una comunità dove il senso di appartenenza era molto forte: mi sono integrato facilmente e mi sono sentito utile e protagonista fin da subito, anche solamente stampando volantini perché quello che c’era scritto sopra era il frutto di analisi, dibattito e condivisione. Ho trovato questo e non sono mai stato deluso dalla scelta che mi ha fatto maturare sotto tutti i punti di vista. Un posto dove ho conosciuto le persone più importanti del partito di allora e dialogato con i compagni che erano il riferimento locale, a partire da Spartaco Zorzenon. Ma la lista sarebbe lunghissima, anche di quei compagni che solo con il loro esempio ti erano maestri di vita e di impegno politico. Ancora oggi quando qualcuno mi definisce, scherzando o con cattiveria, Comunista, rispondo con orgoglio di aver militato nel partito comunista italiano, profondamente cambiato dopo le esperienze del ‘56 in Ungheria e del ‘68 a Praga, seppure ancora con dei residui di dogmatismo come quelli che avevano portato alla radiazione del gruppo del Manifesto nel ‘69.

Monfalcone all’epoca era certo un luogo complesso: grandi insediamenti industriali, un forte movimento operaio e, al tempo stesso, area di confine dove restava ancora viva la memoria di due guerre mondiali e dei drammi delle terre di confine. Com’era la città all’epoca?

Hai fotografato bene il clima politico di quel periodo: forti erano ancora le divisioni del passato, soprattutto della seconda guerra mondiale e del secondo dopoguerra. Il fascismo aveva intaccato fortemente il territorio creando i presupposti per divisioni anche feroci che hanno spaccato il vivere civile locale negli anni quaranta e cinquanta. Si stava però ricostruendo, con il contributo di tutte le forze politiche e delle nuove generazioni che volevano lasciarsi alle spalle il passato e dar vita ad un futuro diverso e più aperto. La città era molto vivace dal punto di vista dell’iniziativa politica e culturale e si cominciava finalmente a ragionare anche di una crescita urbanistica più attenta all’ambiente dopo le storture che ancora oggi caratterizzano in negativo Monfalcone.

Restiamo a Monfalcone. Oggi gran parte della discussione pare ruotare intorno alla presenza migratoria quasi fosse una novità, eppure anche in quegli anni molte famiglie si trasferirono dal sud per lavorare in Fincantieri o nelle altre fabbriche: quali similitudini e differenze vedi tra quel tempo e oggi?

Monfalcone è stato sempre un luogo simbolo dell’accoglienza e dell’integrazione già dagli inizi del novecento. La ricerca di lavoro e la presenza del Cantiere e di altre fabbriche hanno portato qui la popolazione dal sud, come dicevi, ma anche dalle campagne circostanti e, dopo il ‘45, una massiccia presenza di esuli provenienti dalle aree perse dall’Italia, causa la disfatta fascista: Istria e Dalmazia. Non è stata mai facile l’integrazione: ricordo ancora gli slogan, anche nel parlare comune, di chi imputava “ai esuli e ai cabibi“ di rubarci il lavoro e le case popolari. Sentimento diffuso più di quanto oggi si pensi e, fortunatamente, ormai quasi passato, quantomeno per gli arrivi di allora.

Però tutti quei nuovi monfalconesi, pur con usi e costumi e tradizioni diversi, parlavano italiano, più o meno, avevano la nostra stessa religione, erano vestiti come noi; non venivano percepiti come radicalmente “diversi”. La forte migrazione asiatica degli ultimi anni invece è stata ed è qualcosa di fortemente differente e, piaccia o no, molto più complessa per numero, cultura, religione.

La città ha subito, sbalordita, le esigenze della grande fabbrica senza sapere né potere governare un flusso così importante: il cantiere ha pensato solo al profitto, alla concorrenza, al mercato, senza preoccuparsi della forte alterazione del tessuto sociale cittadino di quella che è, comunque, una piccola città. Il processo è stato talmente rapido da non dare il tempo a nessuno di attivare processi di integrazione che necessitano di lunghi periodi. Pensiamo alla scuola, in particolare quella dell’infanzia e quella primaria, e agli effetti determinati dalla massiccia immigrazione. La risposta a queste complessità non può essere lo sdoganamento di sentimenti xenofobi cavalcando le preoccupazioni e le paure delle persone. In altri tempi, ben più duri e difficili di questi in cui viviamo, uomini e donne coraggiosi si sono impegnati, hanno lavorato e hanno costruito una città aperta, positiva e accogliente. La risposta deve essere quella. Non abbiamo altre alternative che non sia un’integrazione chiara nel definire diritti e doveri di tutti, nella consapevolezza che il destino di una comunità è un percorso collettivo.

Bisogna prendere atto che, volenti o nolenti, viviamo in una società più ampia del nostro territorio in cui i riferimenti culturali, religiosi, modelli organizzativi sono plurali e che questa pluralità non sta in “un altrove indistinto e indefinito” di cui possiamo fare a meno o far finta che non esista; questa pluralità è invece presente sul territorio e, a volte, è difficile da gestire anche per chi pensa di essere aperto e culturalmente attento. C’è un ulteriore elemento da considerare e che rende più critico l’approccio: la fase di forte criticità economica che rischia di fare venir meno quello che fino a ieri è stato il principale veicolo di inserimento e integrazione, ovvero il lavoro.

Nei primi anni ’70, con la segreteria Berlinguer, il PCI fece un grande percorso di “insediamento” nella società che lo porterà ai grandi successi elettorali del 75 ’76 e ’77. Esaltante avanzata del Partito Comunista”, come titolò l’Unità, nelle grandi città come nei piccoli comuni. Come ricordi, in questo territorio, il realizzarsi di quella strategia?  

C’erano state delle avvisaglie: nell’autunno del 1973 il segretario del Partito Comunista Italiano dall’anno precedente, Enrico Berlinguer, scrisse quattro articoli sul settimanale Rinascita commentando il colpo di stato di Pinochet in Cile che, l’11 settembre dello stesso anno, aveva abbattuto con la forza il governo socialista democraticamente eletto guidato da Salvador Allende anche grazie al supporto politico e militare degli Stati Uniti. In quegli articoli Berlinguer argomentava la necessità di un cambiamento della linea del partito per favorire una distensione politica in un paese dilaniato dalla strategia della tensione già dal 1969 e da un continuo susseguirsi di violenze politiche, attentati di ogni tipo, stragi, omicidi. Allo stesso tempo l’economia aveva rallentato, se non bloccato, quello che era sembrato un boom economico che non doveva avere fine e si stava inoltre vivendo la prima grave crisi energetica. Questa proposta rivolta soprattutto alla Dc, ma anche al Psi, aveva avuto il merito di mettere il partito pienamente al centro della vita politica italiana e del dibattito politico nazionale. Ovviamente non furono tutte rose e fiori: la proposta ebbe i suoi contraccolpi nella sinistra interna del partito e portò all’adesione ai gruppi extraparlamentari di molti giovani. Ciò fece sì però che il partito facesse sentire appieno il suo peso politico ed elettorale nella vita del Paese. Fu trainante per prendere ulteriormente le distanze dal partito sovietico e rimarcare la peculiarità dei partiti comunisti dell’Europa occidentale, il cosiddetto eurocomunismo, fatto proprio anche dai partiti spagnolo e francese, fino a quel momento molto più chiusi rispetto a quello italiano.

L’altra avvisaglia di quello che sarebbe successo negli anni successivi fu la campagna per il referendum per la conferma della legge sul divorzio del 1974, con una mobilitazione fortissima del Pci che fece avvicinare al partito un ampio fronte di elettori progressisti che vi avevano trovato un veicolo importante per le lotte civili e per l’ammodernamento del Paese. Fu una campagna entusiasmante che vide sullo stesso fronte forze laiche ma anche quei cattolici progressisti a cui Berlinguer si era rivolto nel suo ragionamento sul Compromesso storico dell’anno precedente. Fu una vittoria netta con una partecipazione di quasi il 90% dell’elettorato. A livello locale, a Monfalcone, unico comune della sinistra Isonzo non governato dalla sinistra, o meglio dal PCI, queste trasformazioni si tradussero nel 1975 nella prima esperienza di governo della sinistra con una giunta PCI, PSI e Psdi, pur se quest’ultima forza, che aveva eletto due consiglieri, rimase senza rappresentanza perché i due eletti si resero subito indipendenti, non rispondendo quindi al mandato ricevuto dagli elettori. Corsi e ricorsi storici e politici.

Il PCI, come anche gli altri partiti di massa, creavano una comunità che, oltre a produrre politica e classe dirigente, si occupava anche della vita quotidiana dei militanti: hai qualche ricordo in merito? 

Sulla comunità, e concordo pienamente, lo ricordavo all’inizio. Per quanto riguarda, invece, la vita quotidiana erano passati i tempi di una comunità chiusa che aveva caratterizzato i primi decenni del Pci. Quello che ricordo era una grande solidarietà fra i militanti che si traduceva anche nel vivere comune di ogni giorno.

Tornando a temi più di cultura politica: in questi giorni escono due libri sulla storia del PCI: “La metamorfosi” di Luciano Canfora e “Vento di rivoluzione” di Marcello Flores. I due autori divergono su un punto: per Canfora il PCI fu, nei fatti, un grande partito socialdemocratico di governo, per Flores, invece, non venne mai meno la sua identità bolscevica. Per come l’hai vissuta, come la vedi?

Non ho letto i due libri, rimedierò al più presto. Posta così la domanda, e ovviamente posso parlare per gli anni vissuti da me nel partito, sono assolutamente d’accordo sul partito socialdemocratico di governo. Non ricordo un’identità bolscevica negli anni settanta e ottanta, anche se, soprattutto per la vecchia guardia, il mito dell’URSS e del suo grande contributo alla lotta contro il nazifascismo era vivissimo. Il PCI di allora, partito di lotta e di governo, era teso ad amministrare sempre più il territorio e farlo con qualità per dimostrare di meritare anche il governo del Paese assieme alle altre forze popolari.

Uno dei tratti fondamentali della cultura e della pratica del PCI, dalla Resistenza alla lotta al terrorismo, è stato il senso profondo dello stato e del suo ruolo “repubblicano”, cosa ricordi di quei momenti difficili tra terrorismo e minacce di golpe?

Ricordo tutte le tensioni di quel periodo, dal tentativo di golpe Borghese, reso noto solamente nel’71 e che fu tutt’altro che un tentativo da operetta, ai continui attentati a cui non erano estranei corpi separati dello Stato, come dimostrato dalle tante inchieste e sentenze successive. Il Partito comunista italiano, con la sua forza, prestigio e radicamento, fu una garanzia per la tenuta democratica del Paese in tutti quegli anni. Questo percorso stava sulla tradizione del “Partito nuovo” e della svolta di Salerno del ’44 di Togliatti, del ruolo nella Costituente e dei primi governi del dopoguerra, dove il PCI fu fondamentale per una pacifica ripresa della vita civile nel Paese. Questo significò allora rinunciare anche ad alcuni aspetti rivendicativi della lotta al fascismo, sacrificati alla ragione di Stato ma che pesano ancora oggi. Questo discorso ci porterebbe lontano e fa parte di una anomalia tutta italiana che sul passato ha preferito nascondere la polvere sotto il tappeto.

Tu sei stato tra i fondatori della Libreria Rinascita e assessore alle attività ricreative e culturali nella prima giunta di sinistra della storia di Monfalcone.  Il rapporto tra PCI e intellettuali fu ricchissimo. Cosa ricordi di ciò in relazione al nostro territorio e alle sue complessità culturali?

Il rapporto fra cultura e partito era molto stretto a livello nazionale: sarebbe sufficiente ricordare il grande numero di intellettuali eletti nelle liste del partito ad ogni elezione per il Parlamento, la forza editoriale e giornalistica, la presenza di grandi intellettuali ai vari convegni, ai seminari, alle scuole per formare i nuovi quadri dirigenti. Ho frequentato le Frattocchie e Fagetto Lario e lo posso testimoniare. Ricordo ancora alle Frattocchie di essermi trovato a sedere per ore, a un seminario, fra Scola e Guttuso. A livello locale era un po’ diverso, più difficile tradurre in pratica la preparazione che i quadri, soprattutto quelli più giovani, avevano. Ma c’era grande rispetto verso di noi e a volte ci si considerava più forti di quello che in realtà eravamo, ma era forte il riflesso della politica culturale nazionale.

Il confine è una cifra di queste terre e un tema sempre complesso per il PCI. In quegli anni si assisteva al normalizzarsi delle relazioni tra l’Italia e la Jugoslavia di Tito che porteranno agli accordi di Osimo. Che rapporti c’erano con i “compagni” di oltreconfine?

Personalmente posso solamente parlare di rapporti occasionali in ricorrenze legate alla Guerra di Liberazione o di qualche sporadica occasione di incontro fra i movimenti giovanili delle due aree. I rapporti erano tenuti dai vertici della Federazione e comunque a Gorizia c’erano maggiori contatti fra le due parti, anche per obiettive ragioni geografiche, rispetto a Monfalcone. Anche la forte presenza della minoranza slovena favoriva un maggior dialogo fra le parti in quell’area.

La tua esperienza politica ti ha portato sia al governo che all’opposizione. Oggi c’è un ricordo della cosiddetta “Prima Repubblica” ancora condizionato dai sentimenti delle vicende di quegli anni. Con un occhio un po’ più freddo, com’era la politica, i rapporti tra i partiti e nelle istituzioni all’epoca e come è cambiata oggi?

I partiti erano qualcosa di molto diverso da oggi; tutti i partiti intendo. Strutture con ampia adesione, iscritti, con riunioni frequenti e partecipate dove si costruivano gli indirizzi, soprattutto sui temi locali, poi sintetizzati dagli organismi dirigenti. Erano scuole di formazione politica e amministrativa in cui venivano selezionati i futuri dirigenti e amministratori pubblici. Il rapporto fra partiti e istituzioni era molto rispettoso delle regole, quelle scritte e quelle non scritte. Certo c’erano dissenso, divisioni ideologiche marcate, ma non ricordo l’incattivimento e la personalizzazione odierni: la disputa era sulle cose. Oggi penso che manchi molto la preparazione che derivava da percorsi politici formativi fatti in quei contenitori che erano i partiti. Penso che la comunicazione moderna non abbia aiutato questo processo, l’abbia eccessivamente semplificata a favore della velocità comunicativa figlia di questi tempi.

Nell’89 tu non facevi più politica in prima linea, come hai vissuto il collasso del sistema sovietico e la fine del Partito comunista italiano?

Per quanto riguarda il collasso del sistema sovietico fu un fatto inevitabile, atteso; la fine di un percorso storico che all’inizio aveva creato molte speranze ma che poi aveva tradito tante attese e non portato a termine i valori per il quale era nato. Per quanto riguarda il PCI il discorso era diverso, forse, più di tutto, era ingombrante il nome ma non il percorso democratico fatto.  In quegli anni entrò in crisi tutto il sistema, con i partiti prede di sistemi clientelari e affaristici. Ma soprattutto andò in crisi un mondo, quello della Guerra fredda, e cambiò radicalmente il ruolo dell’Italia nel contesto internazionale. Certo, forse non capimmo che quel collasso non travolse solo il sistema sovietico, ormai fallito nonostante il generoso tentativo di Gorbaciov, ma mise in discussione le stesse politiche del movimento socialista e della sinistra del mondo, accelerando una corsa al liberismo di cui oggi vediamo i danni a partire dall’emergere di profonde e inaccettabili differenze sociali.

Per chiudere, secondo te, cosa è ancora attuale e utile per chi fa politica oggi dell’esperienza del PCI?

L’idea che la politica è un impegno serio, fatto di studio, conoscenza, capacità di mediazione ma anche radicalità di contenuti. Il fatto che la politica è un gioco di squadra, dove le ambizioni personali, che ci sono state e ci saranno sempre, devono comunque sottostare a un progetto di trasformazione della società. Infine, che la politica non è solo avere una buona immagine mediatica, ma è sostanza di valori ed è scegliere sempre da che parte stare.

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