Recensione di Davide Strukelj
La memoria finalizzata alla costruzione della storia è una funzione attiva, necessariamente volontaria e contemporaneamente faticosa, perché richiede forza, coraggio e determinazione. Ricordare in tal senso non è oblio del pensiero e indisciplinato fluire di fotogrammi, nomi, odori, sensazioni. È energia finalizzata al sapere.
Ecco allora che nel Giorno della Memoria alcune opere rivestono un ruolo che non si limita al rivivere e al raccontare, ma bensì serve a scrivere il passato per destinarlo al compimento di una cultura che deve appartenere a tutti. Così è per “Trieste – un romanzo documentario” di Daša Drndić.
Che cosa è uno spettatore? Questa è una delle domande sussurrate ripetutamente, con discrezione e senza essere mai posta espressamente. Nel parlare comune è colui che segue uno spettacolo. Nella psicologia delle masse è la sindrome che colpisce gli individui che assistono ad una situazione estrema e di grande sofferenza per altre persone ma non intervengono in loro aiuto, rimanendo appunto spettatori.
Da questo paradossale comportamento parte un romanzo storico centrato su quel drammatico conflitto che condusse allo sterminio razziale del quale la banalità diffusa del male fu ingrediente scioccante. “C’era la guerra, che altro potevamo fare?”
Romanzo ricco di nomi, perché “dietro ogni nome si nasconde una storia”, e di riferimenti che intrecciano le vicende di personaggi noti e meno noti, come quelle di Renato Caccioppoli, matematico napoletano e manifestante antinazista salvato dalla zia Maria Bakunin, nipote di Michail Bakunin. Seguono, tra le molte altre, la storia tutta interiore di Enrico Mreule narrata da Claudio Magris (“Un altro mare”), e l’incredibile vicenda di Franz Stangl, di cui scrisse Gitta Sereny in un libro ancora oggi sconvolgente (“In quelle tenebre”), nato sulla scia di “Eichmann a Gerusalemme” di Hannah Arendt. Dolcissimo il riferimento a Umberto Poli, diventato Saba in memoria di Peppa Sabaz e morto a Gorizia dove si era consegnato in clinica abbattuto dal dolore, ma senza fare in tempo a conoscere quel Basaglia che, come si ricorda, “tolse le grate dalle finestre”.
Daša Drndić cesella una storia che ruota intorno a Gorizia, un vero ponte sull’Isonzo che congiunge popoli, lingue e religioni, e dove la protagonista, a tratti voce narrante, Haya Tedeschi ricorda che “I cittadini vengono schedati, l’ordine deve regnare ovunque”, richiamando alla memoria un altro ponte, quello del “Ponte sulla Drina” di Ivo Andrić, in cui l’imam Ali-hodža spiega che “il censimento degli uomini (serve ..) per mettere nuove imposte o richiamare gli uomini per qualche corvée o per la guerra”. Conflitti diversi, medesime drammatiche usanze.
Storie di città e di ponti, dunque, costruiti dai potenti del tempo, gli Asburgo a Gorizia e il Pashà turco a Višegrad, per collegare mondi e popoli; ponti distrutti dalla guerra col fine di dividere e poi ricostruiti dagli uomini per unire nuovamente.
Ma i nomi sono anche la nostra storia, e il finale propone un profondo dramma interiore, intimo e connesso all’identità personale, alla conoscenza delle vicende recenti del nostro mondo, di ogni singolo individuo e dei vincoli che legano le persone, perché per ciascuno di noi “la realtà è intrecciata e indivisibile”…
Una nota sul titolo dell’edizione italiana, “Trieste – un romanzo documentario”, che difficilmente richiama l’originale “Sonnenschein”. Il titolo tedesco della prima edizione in lingua croata (2007) significa “luce del sole”, ed è noto per essere il soprannome del piccolo Riccardo, discendente di quel Francesco Illy venuto a Trieste dall’Ungheria e fondatore della nota azienda. Il cognome della protagonista è Tedeschi, “ein jüdischer Name”, un nome ebreo, come si ricorda più volte. La tesi è evidente: i nomi sono una sorta di impronta digitale. Ineludibili…
Sicuramente l’autrice condivise il titolo dell’edizione italiana: la prima stampa è del 2016 e Daša Drndić morì nel 2018. Forse però un’altra scelta sarebbe stata possibile, anche perché c’era “un mondo magico nel cuore della piccola Gorizia occupata.”